Un uomo non può soffrire per sempre (di V. Macioce)

La poesia delle parole di Vittorio Macioce, l'uomo del Festival delle Storie in Valcomino, nel raccontare Il suicidio assistito di Davide in Svizzera che riapre il dibattito sul fine vita

Vittorio Macioce

Il Giornale - Caporedattore

F ine pena mai. Non puoi entrare negli occhi di un uomo che sceglie di morire. Qui non si parla di etica e neppure di politica.

Questa volta il centro è il dolore, un dolore senza tregua, senza speranza, che non passa, forte, intenso, come una tortura, che non trova neppure più sollievo nel metadone e nella morfina e che non smette. Non c’è un punto, una fine, in questa vita.

Davide Trentini, cinquantatré anni, toscano, barista, da venticinque malato di sclerosi multipla, con un corpo che negli ultimi tempi era solo un fascio di nervi urlanti, ha schiacciato da solo il pulsante per aprire la flebo con il «veleno» che uccide. È l’ultimo italiano accompagnato in Svizzera dall’associazione Coscioni per abbandonarsi all’eutanasia.

Le ultime parole di Davide danno un senso a tutto: «La cosa principale è la parola dolore. Io basta dolore. Subito». Non si può chiedere a nessuno di soffrire al di là del proprio limite. Non ci sono ragioni metafisiche o razionali. Non c’è neppure una legge naturale. L’ultima parola spetta all’io, singolo, umano, sfinito. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Quelli di Davide. Ed è Davide che schiaccia il pulsante, che dice basta. Finisce qui.

Il resto è pietas. È un sentimento antico e la speranza è che non tramonti mai. È la mano che abbassa le palpebre. È spostare lo sguardo dall’altra parte quando capisci che non c’è più cura, medicina o sollievo che possa salvare una madre, un padre, una persona che ami. È quando preghi il caso o la necessità di spegnere quello strazio. È tutte le volte che qualcuno sceglie per un cane o un gatto il tavolo freddo di un veterinario.

Perché è meglio lasciarlo andare che vederlo soffrire ancora. E allora, se c’è pietà per gli animali perché non c’è per l’uomo? Non si può chiedere all’umano di soffrire oltre l’umano. Neppure Dio ne è capace. Neppure Dio ne è immune. È l’atto di pietà sotto la croce. È la spada del Centurione Longino che all’ora sesta trafigge il costato di Cristo. È Gesù che nell’orto del Getsemani piange e chiede, implora: «Padre, allontana da me questo calice».

No, neppure il Figlio dell’Uomo conosce la misura della propria sofferenza. Quanto si può resistere? Non chiedetelo allora a chi non è un Dio incarnato.

È la lezione biblica che arriva dal Libro di Giobbe. Giobbe sfiancato da una scommessa di Dio. Mi amerà anche se lo maledico? Giobbe che accetta, sopporta, si piega, si lascia calpestare, anche quando non ha più nulla da perdere perché ha perso tutto. Giobbe che resta comunque il più devoto degli uomini.

Eppure c’è un momento in cui chiede conto a Dio. Lo incalza, come un avvocato in un processo, e, stremato, gli chiede alla fine: «Perché?». La risposta di Dio è tremenda. Perché io sono io. E tu, Giobbe, chi sei? Tu sei nulla. Ed è lì che Giobbe lo implora. Portami in quella terra dove gli sfiniti trovano pace.

Quella terra, ieri, era in Svizzera.

 

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