Il male di vivere di una generazione che sta contagiando il Paese

Di cosa ha paura oggi, Fabrizio De André?
Il cantautore genovese rispose così alla domanda: “Sicuramente della morte. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita”.

L’uomo che scrisse ‘La canzone di Marinella’, ‘Don Raffaè’ e tanti altri successi eterni, è sempre stato in anticipo sui tempi. E aveva intuito bene cosa stava per succedere. Ma è proprio così? Davvero i motivi sono molto più futili di quanto non sia il valore della vita?

Per Francesco Orestanoil suicidio dimostra che ci sono nella vita mali più grandi della morte”.

In queste ultime ore anche la nostra provincia è stata scossa da due fatti di cronaca che hanno visto protagonisti e vittime due giovani. Non si parla d’altro, ma è proprio vero che soltanto quando una tragedia ti tocca più o meno direttamente inizi a riflettere. Sono fuori luogo i giudizi sommari dei tuttologi che intervengono su tutto ma che non sanno nulla. Il punto è che non ci accorgiamo del male di vivere che ci circonda, che ci inonda. Quel male di vivere descritto dal poeta Eugenio Montale: “Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato…”.

Non lo vediamo, non ce ne accorgiamo. Andiamo sempre di fretta, non parliamo con i nostri figli, pranziamo con loro una o due volte alla settimana. Non condividiamo nulla con nostra moglie o nostro marito, con nostra madre o con nostro padre. Con gli amici non ci confidiamo più, discutiamo di lavoro. Non ci sforziamo di provare a capire i nostri giovani, preferiamo definirli fortunati e bamboccioni. Non comprendiamo il male di vivere che anche noi abbiamo, magari sepolto da tonnellate di impegni quotidiani.

Cosa è diventata la nostra società? Sì è vero, la crisi economica ha spazzato via ogni certezza. Soprattutto ha massacrato il concetto di lavoro: il posto fisso non esiste più (era un reato?). Il precariato è stato imposto per legge ma non consente di programmare nulla, men che meno di mettere su famiglia e avere dei figlio. Tutti o quasi sono sottopagati, non hanno i contributi. I padroni sono persuasi di farti un favore…

Del doman non v’è certezza. Ma non c’entra niente con il concetto del “carpe diem” di Orazio prima e di Lorenzo il Magnifico poi. Non è un inno alla gioia, ma un peana alla disperazione. La mancanza di lavoro ha ucciso la speranza. Non se vanno soltanto i “migliori cervelli”, se ne vanno i giovani normali che all’estero possono lavorare e avere una dignità. Se ne vanno i pensionati che in Italia non riescono a campare. Se ne va chiunque ha il coraggio e la possibilità di mettersi il Paese alle spalle.

Poi naturalmente ci sono i drammi personali, gli abissi interiori e inconfessabili che ognuno di noi si porta nel cuore e nell’anima. Ma le “difese immunitarie” della società non ci sono più: mancano i valori, la solidarietà è diventato un concetto sconosciuto, l’ascolto non ne parliamo.

Perfino il dialogo intergenerazionale tra nonni e nipoti è sempre più raro. La società italiana è minata alle fondamenta perché l’impellenza è quella di sbarcare il lunario.

Michele, il ragazzo che ha deciso di togliersi la vita qualche settimana fa, ha scritto nella lettera pubblicata dal Messaggero Veneto di Udine: «Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, è un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco, i limiti di sopportazione sono soggettivi, non oggettivi.

Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata».

E’ la disperazione di una generazione, che noi non riusciamo davvero a comprendere. Sbagliando, perché si sta trasformando anche nella nostra disperazione.

Non è puntando l’indice contro la classe politica che si risolvono i problemi, tuttavia la classe politica nulla fa per cercare di invertire la tendenza. Il debito pubblico aumenta, gli scandali si moltiplicano, la Casta è sempre lì.

Lontanissima dalla disperazione quotidiana. Non abbiamo una classe dirigente all’altezza, questa è la verità. A nessun livello. Nel film Gioventù bruciata, diretto da Nicholas Ray nel 1955, con James Dean, c’è la scena citata della corsa verso il burrone (Chicken game): due ragazzi fanno una corsa automobilistica lanciandosi a tutta velocità verso un dirupo, chi salta giù per primo, è il “pollo”. Nel film uno dei due ragazzi (l’altro è James Dean) rimane impigliato nell’abitacolo e muore precipitando nel burrone.

La deriva della nostra società sta portando a questo, in ogni settore.

Il male di vivere lo incontriamo tutti i giorni. Proviamo a fermarci, proviamo a comprenderlo.

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