Cara Ideal Standard, la responsabilità non puoi buttarla nel cesso (di D. Bianchi)

Il caso Ideal Standard e le responsabilità di un'azienda che ha solo sfruttato il territorio. Senza investire, senza innovare: che è stata la salvezza invece per gli altri.

Daniela Bianchi

già Consigliere Regionale del Lazio

Se c’è una cosa a cui non sono riuscita ad abituarmi in questi cinque anni, è quel senso di vuoto e nodo che mi prende quando sto per incontrare chi ha perso un lavoro, chi lo cerca, chi sopporta sulla sua pelle scelte prese da altri. E per il territorio che rappresento e da cui provengo, ne ho fatta di palestra…una crisi dietro l’altra e il dramma occupazionale ha sempre più contorni familiari, volti e sguardi. Così ieri, all’ingresso del piazzale della Ideal Standard, il cielo grigio e i volti bui.

 

Fatti salvi gli incontri che si terranno in Regione il 6 dicembre prossimo ed al Ministero per lo Sviluppo Economico il 15 dicembre, su questa vicenda, restano sul tavolo una serie di interrogativi che hanno tutti a che fare con l’impunità delle aziende che gestiscono aiuti e accordi, ma che sono poi pronti ad alzare i tacchi e ad andarsene come se nulla fosse.

 

L’arroganza di una azienda multinazionale che decide di chiudere per margini ridotti, e che pur tuttavia nel 2014 aveva posto fine alla procedura di salvaguardia prendendo degli impegni seri in tema di riorganizzazione dell’impianto per renderlo più competitivo e innovativo, non può essere scaricata sul destino e sulle spalle di 316 famiglie.

 

L’incapacità di fare impresa o peggio ancora la spregiudicatezza di chi cambia strategia industriale, senza un minimo di coinvolgimento delle parti istituzionali con cui fino a poco prima ha preso impegni, può essere oggetto di una rivalsa? Vorrei aprire un dibattito serio in materia, perché non possiamo più essere ostaggio di questa follia.

Ad una mia domanda precisa su piano industriale e acquisizioni di posizioni di mercato, la proprietà ha risposto che, pur in attivo, si chiude Roccasecca per problemi di dimensionamento, perché è piccolo, perché non è più funzionale al gruppo, perché i margini sono irrilevanti, perché la crisi…(benedetta crisi quanta incapacità hai giustificato..!!!)

 

Bene, peccato che siamo in presenza di gruppo che nonostante nel 1999 acquisisce le quote di un marchio importante nel settore (che un parere dell’autorità garante definisca come un importante mercato in crescita nel quale fare acquisizione di posizioni), non riesce a stare al passo delle strategie di sviluppo di altri operatori, quali Roca, Laufen Duravit, Villeroy & Boch, Caradon, Vitra e Kohler già attivi a livello europeo con quote comprese tra il 2 – 4% (Kohler) e il 12 – 15% (Roca) e in forte crescita in Italia.

 

Ora a me è chiara una cosa, fatto salvo che il dimensionamento territoriale è un tema sul quale noi tutti dovremmo fare una seria e attenta analisi e valutazione in termini di competitività, rimane il fatto che se un grande gruppo continua a produrre sanitari come se si fosse nel 1950, non investe in innovazione, ma soprattutto non investe in design, mentre gli altri player sul mercato hanno trasformato i loro prodotti in un business sensoriale , non può scaricare sui lavoratori, e sull’Italia in genere, la sua incapacità.

 

Ai lavoratori e alle loro famiglie, tutta la mia solidarietà e l’impegno a tenere alta la guardia, ma per il resto basta davvero. Vogliamo discutere di strategie industriali, di riconversioni, di piani a lungo periodo, vogliamo gente seria come interlocutori, la stessa serietà che è richiesta a tutte le altre parti in gioco.

 

Noi non siamo Sud, (almeno non nel senso dispregiativo che qualcuno vuole dargli) e basta anche con la nostalgia anni ’50 per le grandi fabbriche che furono….stiamo pagando oggi a caro prezzo quella follia lamà dove non ha generato né vocazioni né crescita, ma solo un dannato e becero clientelarismo…

 

Ben venga invece la storia industriale di chi ha generato e genera valore, valore sociale

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