Imparate a pensare ad una persona anche quando parlate di una donna (di M.R. Scappaticci)

L'errore è ridurre la violenza a singole azioni. Invece sono solo le foglie di una pianta che ha radici. Profonde.

Maria Rita Scappaticci

Psicologa e blogger

Undici anni.

La bellezza dell’infanzia, la voglia di crescere in fretta, le prime uscite serali con le amiche e l’ora del rientro alle 10 come conquista.

E poi le braccia dei genitori, sempre lì ad aspettarci quando abbiamo paura, perché vogliamo guardare fuori dalla porta con aria fiduciosa verso il futuro ma siamo ancora troppo piccole per staccarci dalla tenera rassicurazione degli adulti.

Undici anni ed essere bambine.

Quelle che ancora amano le bambole, che giocano con i trucchi della mamma, che hanno dei sogni ancora troppo lontani dalla terra ma una voglia infinita di realizzarli tutti.

L’orco che si spaccia per amico, amorevole, fidato, di mamma e papà.

E lo lasciamo fare, seppur impaurite, ingenue, spaventate dall’orrore e dalla crudeltà con la quale ci usa come merce invece di proteggerci come farebbero i grandi.

 

Vent’anni.

Un amore in piedi solo attraverso l’ossessione e la voglia di essere amate, per davvero. Dove per amore intendiamo rispetto, libertà e condivisione.

Un amore che sentiamo non essere giusto, ma continuiamo a volerlo perché a volte credere alla parole è più facile che scappare via da quel senso di oppressione che ci sconvolge le giornate.

 

Trent’anni.

E la voglia di dimostrare che non siamo solo un corpo da mostrare.

Che abbiamo studiato e abbiamo tanto da dare come professioniste e non con lo spacco della gonna.

 

Ciqntant’anni.

Incredule che il mondo sia ancora diviso tra un genere nobile, quello maschile, e un genere succube, quello femminile.

Forse ormai esauste per denunciare, risucchiate dalla cultura che non perdona.

La colpa di tutte: essere nate donne.

In un mondo dove se sei femmina devi dimostrare di valere in quanto persona e deve guadagnarti un diritto che forse non arriverà mai per davvero.

 

Spesso vediamo solo i lividi e le percosse o ci limitiamo a sospirare su di un corpo ormai esanime.

E troppo spesso cerchiamo una spiegazione alla violenza e alle vessazioni invocando il raptus del momento e la rabbia del contesto nel quale viene consumata.

 

L’errore è ridurre queste azioni a singoli attimi dove si perde la testa, solo a singole azioni, avvenute nel silenzio di un mondo che in apparenza procede bene e senza screzi.

Gli atti di violenza sono l’epilogo di un processo culturale che pone le radici su di una costruzione di senso della realtà basata su pregiudizi e stereotipi fissati da quale parte nel mondo e senza un valore effettivo reale.

 

E’ in questo modo di pensare che cresce e si sviluppa la violenza, nella costruzione di ruoli rigidi senza alcun valore vero ma solo schemi e preconcetti sempre uguali.

E non è così lontano dai nostri paesi che definiamo civili e moderni. E’ in casa nostra, nel nostro quotidiano, nel rapporto con gl amici, nella scuola, nella famiglia e nelle migliori comunità.

Imparate a pensare ad una persona anche quando parlate di una donna.