Un trapano, un martello, una spranga, per distruggere giorno e notte una mimosa

Rita Cacciami

In punta di stiletto. Il veleno è previsto nella ricetta.

di RITA CACCIAMI
Vice Direttore
L’Inchiesta Quotidiano

 

 

Ci siamo. Pochi giorni e la Festa della Donna impazzerà come un secondo carnevale. Ridotta ad un menu a prezzo fisso. In una spiumata generale di mimose da vendere fin dall’alba agli angoli delle strade. Su bancarelle improvvisate. Supportata da un coro di banalità senza alcun risvolto sociale. Né emotivo. Disertando, spesso, le uniche occasioni che hanno un senso per riflettere. Convegni, dibattiti, incontri a tema. Su tematiche di valore. Pensando a quanto sia importante prevenire. Dolore, sofferenza, in molti casi anche la morte.

E allora voglio raccontarvela io una storia, prima che sia troppo tardi.

Parla di una mamma disperata che a 40 anni e poco più è senza forze. La mente, l’anima, il corpo. Non la sostengono oltre. Dopo 4 anni di soprusi dal vicino di casa che poi è anche un parente stretto. Ma distante anni luce da lei e dalla sua famiglia. Ci sono tanti modi per distruggere la psiche. Lui ha scelto il rumore molesto. Di una motosega, un trattore, un frollino, una spranga di ferro, un martello. Tutto quello che gli capita a tiro è buono per esasperare la confinante, i suoi figli e il marito. A tutte le ore del giorno e della notte. Siamo a Sora. Appare addirittura un cartello con la scritta “Pericolo di morte”. Lo ha trovato lei, questa donna ormai esausta, tornando a casa. Se tale si può ancora definire quell’abitazione. Di solito considerata un rifugio. Mentre la sua è diventata un inferno. Dove i figli non riescono neanche a studiare. O a giocare e scherzare con gli amici che neanche ci vanno più. Per questo restano a scuola anche il pomeriggio. Nella loro cameretta sarebbe impossibile anche solo leggere un libro.

Costretti a cambiar casa per un annetto e pagare un affitto. Pur di recuperare qualche ora di sonno. Un incubo al quale porre fine. E allora sono scattate le denunce. Una, due, tre. E poi ancora altre. Una sola ha sortito effetto. Inizia il processo. Ma i tempi della giustizia non corrispondono alla fretta di sfuggire a quello stillicidio. Quattro anni ti fanno invecchiare. Vissuti così ti fanno anche ammalare.

«E’ una croce – mi dice al telefono questa Donna vera – e mi sento sola. Ho paura per me e le mie figlie. Vivo guardandomi le spalle. E pensando al peggio. Che esistenza è questa, con la paura che ti possano far del male. Mentre distruggono ora dopo ora la tua serenità».

Seguirò il processo. E ne farò la cronaca, che è il mio mestiere. Quando salirà sul banco dei testimoni l’imputato, sentiremo tutta un’altra storia, ovviamente. E scopriremo il suo punto di vista. Racconterò anche quello. Fino alla sentenza.

A proposito, l’avvocato di parte civile si chiama Contucci. Sono certa che vi dica qualcosa. Ma quella è tutta un’altra storia. Gilberta, purtroppo, non può più raccontarne una.

 

 

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