Fuori di testa. Ma dentro la vita (di G.M.Sacco)

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

di Grazia Maria SACCO
Avvocato e blogger
Nel Salotto di Grazia

 

 

I matti sono punti di domanda senza frase, migliaia di astronavi che non tornano alla base, sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole, i matti sono apostoli di un Dio che non li vuole”.

Mi ha risuonato in testa stamattina, in macchina, quando il mio indice impazzito cercava la canzone nelle varie stazioni radio. Mi ha risuonato in testa questa canzone, di un non troppo lontano Festival di Sanremo, il giorno dopo aver incontrato sullo schermo del salotto di casa mia, in una serata di fine lavoro come altre, Beatrice e Donatella, due terremotate dalla vita, ciascuna con un fuoco dirompente a tenerle vive, costrette a mettere il loro cuore in catene, a starsene recintate dentro un pezzo di grigia normalità, per la colpa, forse l’unica colpa, di sentire, di sentire troppo questa vita che scorre, farsela attaccare alle ossa, nutrirsene in modo quasi bulimico, fino ad ingoiare anche l’ultima briciola del dolore più indigesto.

Loro , con i loro pezzi di vestiti stracciati, i cui lembi riescono in modo maldestro a coprire cicatrici profonde e mai cicatrizzate, si muovono come palline da flipper, schizzate via dal tavolo, nel cosiddetto mondo dei sani: quelli che censiscono, incasellano, categorizzano, e che vivono senza caricarsi le spalle di troppi affanni, specie altrui.

E lo fanno anche quando sono padri e madri, l’uno capace sul letto di un ospedale, di offrire alla figlia una somma ridicola, non tanto nell’entità, quanto nello scopo alla quale la stessa dovrebbe tendere, ossia persuaderla a farsi congelare le emozioni in uno elettroshock, e l’altra che misura nel patrimonio di famiglia perso gli errori di una figlia.

Chi sa chi sono poi i sani? E se magari, come molto spesso mi è successo, mi pareva anche a me di sentire troppo, e provavo a chiudermi le orecchie, a serrarmi il cuore, a vedere e non osservare, ma poi mi pareva uno spreco stare al mondo così indifferente, soffrire di meno, ma abituarsi a quel niente che piano piano diventa la quotidianità, quella catasta di giorni infilati gli uni sugli altri, come la pila dei piatti da lavare lasciata sulla cucina, che non ti ricordi più cosa ci hai mangiato dentro, con chi hai cenato, se era buona la pietanza che hanno ospitato.

Tutto diventa indifferente e non sei più tu a dare un peso alle cose. Ma loro a dare un peso a te.

Come se noi ci misurassimo dai successi che abbiamo avuto, dalle cose che abbiamo accumulato, dalla fretta con cui abbiamo macinato lacrime e sorrisi. Invece i matti, si proprio loro, la sanno attraversare la vita, non osservarla solo di passaggio, come fossero su un treno in corsa. E non c’è tempo per fermarsi, capire, assaggiare un’emozione, far respirare il cuore.

Loro i matti amano fino alla sofferenza estrema, no non si fermano in tempo, non controllano la rabbia dentro il political correct, non la congelano nell’opportunità di tacere. Loro la urlano, con tutti i muscoli della pancia e del cuore; lo dicono quando amano e rischiano che il loro amore sia inutile e forse chissà, a volte, tante volte, troppe volte, sbeffeggiato e deriso, mal ricambiato, bistrattato.

Loro lo sanno che l’amore è per pochi, che è come raccontare ad un adulto una favola e pretendere che ci creda: gli adulti hanno imparato a razionalizzare tutto, a credere soltanto a ciò che porta un vantaggio.

I pazzi credono ancora che il dono dell’amore sia nell’amore stesso, nell’offrirsi, e così, nella loro fragilità commuovente, diventano prede appetibili di una crudeltà che i sani praticano chirurgicamente nei confronti di chi è rimasto innocente, ed ha conservato in sé un pezzo di quando era bambino.

Sono affamati di amore i pazzi, nonostante ne abbiano avuto meno di quello che sono stati disposti a dare.

Non li sentirai trincerarsi dietro la paura, e anche quando saranno caduti a troppi metri di altezza, dal ciglio dei loro sogni, non avranno timore della vertigine, si alzeranno ancora in volo e allungheranno la mano per farti saltare insieme a loro.

Ed infatti Beatrice e Donatella si salvano, l’una più matta dell’altra; insieme si restituiscono fiducia, e si dicono, in un atto di commuovente solidarietà che soltanto a due donne matte può appartenere (quelle sane di solito stanno ancora a misurarsi reciprocamente la cellulite e a confrontare quante paia di scarpe hanno nella scarpiera)”meno male che ci sei!”.

Tu , che hai un dolore diverso dal mio, ma di pari intensità, che ti ha devastato, ma non ti ha ucciso.

Ed il coraggio di chi dovrebbe essere se non di quelli che il dolore lo hanno tenuto dentro, come una madre tiene un figlio nel proprio ventre, e poi, quando hanno deciso di farlo venire alla luce, di portarlo fuori dalle loro viscere, ne sono state derubate, come a volerlo incolpare quel dolore, a dire che era troppo, che era ora di reagire, che era tale da averle fatte impazzire.

Ed invece quel dolore andava cullato, coccolato, vissuto, e compreso.

Ma anche la comprensione è dei pazzi.

E’ di chi partecipa alla vita e se ne frega dei suoi giudizi.

Che siamo tutti sotto il medesimo tetto, quel cielo infinito che è bellezza gratuita per tutti.

La vita non ha premi se non viverla a piedi scalzi.

Come i matti.

Senza troppi sé e ma a farci da alibi.

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