La verità a colpi di click (di G.M. Sacco)

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

di Grazia Maria SACCO
Avvocato e blogger
Nel Salotto di Grazia

 

 

Siamo nell’epoca del last minute. Del prendo una cosa a volo e la mangio in macchina, che non ho tempo.

Sfoglio una rivista mentre azzanno la brioche al mattino e rischio di rovesciarmi addosso il caffè bollente.

Clicco su internet quel negozio di quei vestiti che mi fanno impazzire: tanto conosco la taglia, so già come mi stanno, li compro da lontano che di andare al negozio e scegliere con calma, guardare il colore come mi sbatte sulle guance, magari strizzare l’occhio ad una commessa stucchevolmente premurosa, non ho tempo.

Come non ho tempo di ascoltare un’amica, e le mando un messaggio rapido su whasapp. al massimo un vocale, così è più carino, a metà fra una mancata telefonata ed un messaggio.

Abbiamo fretta. Siamo come i tempi di uno show televisivo: con tanti tassativi da rispettare, una scaletta zeppa di cose da fare, uno zapping continuo fra ruoli, doveri, commiati, adempimenti sociali, divertimento seriale e pose plastiche.

Così ingurgitiamo, e non assaporiamo più, con il rischio che il tempo, fatto di pause, non ci dia più l’opportunità di passeggiare fra i pensieri e raccogliere ciò che davvero è, conta, esiste, fra le spine di quelle migliaia di informazioni farlocche di cui il web ci bombarda.

E magari accade anche che la fretta ci divori sogni e ci spenga l’attitudine a riconoscerne la bellezza; si cambi lo sguardo a tal punto da farlo scorrere rapidamente su ciò che ci circonda così come scorriamo le foto sul display del cellulare: non è la tecnologia che si è adeguata a noi, ma noi che ci facciamo dominare dalla stessa.

In questa logica del click a portata di tutti, democratica per eccellenza, si inserisce facilmente il qualunquismo e l’illusione che il click , con la magia di dimezzare il tempo ordinariamente impiegato, ci possa far accedere a qualsiasi realtà, senza la fatica di analizzarla, studiarla, comprenderla, e metabolizzarla.

Mettiamo tutto sul bancone del tempo: gli consegniamo le chiavi della nostra esistenza, senza piegarlo a delle pause; rovesciare per una volta la clessidra , interrompendone il flusso, svegliare la curiosità di andare a vedere un tramonto di persona , anziché osservarlo da uno schermo, andare a cercare le parole in riva al mare, invece che copiarle da un link prestampato condiviso fra milioni di persone che se lo appicciano come un francobollo sulla cartolina della loro esistenza, senza alcuna consapevolezza e senso di appartenenza.

Così una casa non diventa più un posto da arredare, ma da riempire: Ikea al posto di quell’arredatore di esperienza, che ti mette a soqquadro il cuore quando si affaccia fra le mura del tuo nido, per illuminarne gli angoli, farli diventare amplificatori delle tue memorie o custodi degni dei tuoi ricordi; quando una parete non diventa soltanto uno scaffale invisibile di oggetti da mostrare, ma il tuo primo saluto a chi varca il tuo posto più intimo; a studiare la luce giusta per quel mobile, comprato dopo un girovagare lungo, ad immaginarsi scene di vita scorrere sul pavimento delle stanze, come scene di un film che si susseguono sul nastro.

La dimensione propria di ogni cosa.

La misura propria di ogni individuo.

Il vestito della sarta, cucito sui tuoi fianchi, appoggiato sulla tua schiena di fatiche e sventolante sui chilometri fatti dalle tue gambe, che mentre lo provi le guardi stanche di tutto il cammino fatto, eppure ancora desiderose di far le superbe sotto una minigonna.

Il tempo di guardarsi e riflettersi nello scambio di un racconto; la curiosità di non accontentarsi di ciò che la folla dice, convinti e persuasi che la ragione non sta sempre da parte della maggioranza e che il primo atto di conquista della libertà è la disobbedienza.

Alla mediocrità di chi pensa di sapere tutto , senza studiare, senza osservare, senza perder tempo, occorre ribellarsi.

Altrimenti tutto sarà riducibile, compreso noi stessi, un giorno, ad una frase letta su un social.

Sarà quest’ultimo giudice dei nostri gusti, censore delle nostre scelte, commentatore aspro e spettatore spietato, perfino, dei nostri dolori.

Perché il social deresponsabilizza : come se quello scritto su un pc, sulla bacheca di un blog o di un socialnetwork, una volta messo lì nero su bianco, non ci appartenesse più, fosse altro da noi, diventasse anonimo e per questo ci sottraesse a qualsivoglia rimorso o presa di coscienza.

Tutti possono fare tutto. Con leggerezza estrema , quella di un click.

Ed è paradossale che, per fare una divagazione assolutamente goliardica e leggera, sul palco di quella che è la manifestazione suprema della canzone italiana, vinca chi di questo tuttologismo abbia tentato di fare critica sagace ed ironica, per poi essere proclamato proprio da un click di televoto, da chi magari stona dentro la cabina doccia ogni mattina o scambia la coreografia colorata di un furbo esperimento teatrale per talento musicale.

La verità è che tutti non possono fare tutto.

Un click non può sostituire un giudizio ponderato.

Non può attestare un talento; e non può frugare, come un ladro senza pudore, nella vita intima delle persone; non può essere mai meta di una ricerca.

Le cose che valgono meritano ed esigono attesa. Non sono un pasto veloce sulla bocca di chi è digiuno da tempo.

Troppi plotoni di esecuzione eretti, come altari sacrali ,sulle vite degli altri.

Condannati ai tempi, ancora, delle indagini.

Colpevoli, prima ancora di entrare in un’aula del tribunale.

Perché prima delle aule di giustizia c’è quell’articolo lì su facebook, cliccatissimo, che punta il dito, ghettizza, espone al linciaggio più becero e volgare: come una pietra tirata, all’improvviso, mentre stavi girato di spalle.

La rete è vigliacca.

Se ci caschi, ti risucchia.

Prendetevi il tempo di non dedicargli eccessivo tempo, e soprattutto, eccessiva considerazione.

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