Perdendomi all’orizzonte (di G.M.Sacco)

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

Un tramonto, come un sipario che chiude la scena dell’estate e apre all’inizio della rappresentazione dell’autunno. Un tramonto per pensare ad una stagione che ormai è volata via. Ma anche un tramonto per tornare indietro con la memoria. Un’estate fa, un anno fa. In questi giorni dal tramonto struggente l’Italia si sgretolava.

Come ci ricorda la poesia della penna di Grazia Maria Sacco.

 

di Grazia Maria SACCO
Avvocato e blogger
Nel Salotto di Grazia

 

 

Lo guardo con la presunzione di trovare una risposta ai tanti interrogativi che mi girano in testa.

Lo guardo, questo rosso che invade l’orizzonte, che sembra voler chiudere il sipario, così sontuosamente, mettendosi in mostra con il suo manto acceso, che non passa inosservato, come fosse il Re dei teatranti, a chiedermi se ci sia un gancio laggiù, un mistero da sondare, per predisporre le proprie mosse, per non ritrovarsi in balia di un destino crudele, per fuggire prima della morte, per anticipare un dolore o trovare la scorciatoia per giungere ad una gioia tanto attesa.

E quel rosso mi riporta all’effetto che può fare in petto, al colore vivo della ferita che ti si può aprire dentro quando sei un terremotato della vita, quando il tuo corpo inizia ad essere calibrato sul tremore, e conta passi verso un ignoto che tanto ignoto non avevi mai osato immaginare.

Penso a chi, quella sera, prima di addormentarsi, aveva appena detto ti voglio bene ai propri figli, o scritto un messaggio di amore, risposto ad una offerta di lavoro, o semplicemente aveva comprato il materasso di lattice nuovo, agguantandosi l’offerta tanto attesa.

Penso ad un paese che si riuniva attorno alle tradizioni, che viveva ancora di cose semplici e le trasformava in un festival di allegria senza tempo e senza età, ove anziani, giovani e bambini, costruivano un ponte colorato di chiasso e mani che passavano piatti, canzoni antiche canticchiate in sottofondo, un bicchiere di vino della vigna del nonno a brindare ad un’altra estate trascorsa insieme, la testa bianca di una donna minuta e con gli occhi di gioia ad impastare, a girare calderoni, a distribuire consigli alle più giovani, a raccontare storie, come cimeli di un paese che sapeva essere ancora radice e nello stesso tempo ramo che si tendeva a conquistare anche gli stranieri ed i turisti; una cartolina del passato che sa ancora interessare il presente.

Penso al rosso vivo del sangue, al rosso della disperazione delle ultime mani che si sono tenute, delle grida che hanno squarciato la gola per quanto sono state forti, al bruciore della paura dei sopravvissuti, al rosso del cielo di questo mare che si affaccia alla vita attraversandola ferocemente.

E poi, però, così d’improvviso, penso anche ad un altro rosso, quello delle mani che sfregano e cercano senza sosta; il rosso delle strette degli abbracci, delle vite che pulsano sotto le macerie e degli occhi arrossati di quegli angeli dei vigili del fuoco che non smettono un attimo di crederci e che , di tanto in tanto, si commuovono sorprendendosi a tenere fra le braccia il corpo di qualcuno che , per miracolo, ancora respira.

Penso al rosso della speranza che anima, mette in moto; al rosso intenso dell’amore che si mette in circolo, che fa ampi giri, e raccoglie tutti in una unica e grande morsa; al rosso che si riflette sulle acque del mare , senza riuscire ad annientarne l’immensità, che è quella della vita , che anche accanto alla morte, palpita, vuole andare avanti, sgambetta con le ultime energie che le sono rimaste.

Al rosso delle gote quando un’emozione le sorprende: e c’è anche, oggi, quella della commozione nel vedere un Paese intero allargare il cuore, farlo diventare una stanza senza pareti, ove trovare consolazione, affetto, comprensione, aiuto e calore.

Nulla può mutare il corso degli eventi; ma le conseguenze degli stessi possiamo tentare di modificarle, di attenuarle, di addolcirle, di spolverarle da quella brutta patina che è la solitudine.

Facciamoci casa di chi una casa non ce l’ha più; ove casa è il posto in cui ritrovi te stesso dopo le fatiche di una giornata di lavoro, piangi in silenzio, osservi il mondo al sicuro; ove casa è tana quando fuori è freddo e tu hai voglia del calore del tuo camino; ove casa è ritrovarsi dopo un viaggio ; è un bicchiere d’acqua fresca in piena estate; è dove corrono scalzi sul pavimento i tuoi figli; ove casa è dove hai concepito l’amore, hai costruito il nido , hai firmato il primo contratto, hai pagato con i tuoi primi soldi; ove ti sei sentito adulto ed autonomo.

Ora la casa siamo noi e la nostra generosità.

E questa casa nessun terremoto mai la potrà abbattere!

§

Foto: copyright Alessio Porcu, tutti i diritti riservati all’autore