La sfida di amare ciò che sei: anche se hai la sclerosi (di M.R.Scappaticci)

Maria Rita Scappaticci

Psicologa e blogger

di MARIA RITA SCAPPATICCI
Psicologa e blogger

 

 

Quarant’anni e già una brutta diagnosi sulle spalle: sclerosi multipla.

La malattia lo aveva già segnato: grosse difficoltà a camminare e rigidità nei movimenti del corpo. Aggiunte a deficit cognitivi: ricordare le cose era sempre più complicato, parlare e ragionare si faceva più faticoso ogni giorno. Era la conseguenza della patologia neurologica di base.

Nonostante una simile situazione con la quale scontrarsi quotidianamente, nessuno era più felice di lui quando arrivava nello studio del neuropsicologo da solo “a bordo” delle sue stampelle.

Era abituato a fare tutto da solo, compreso continuare ad andare al lavoro. Non voleva abbandonare la sua routine che lo faceva sentire come gli altri, utile a se stesso. E neanche poteva permettersi di abbassare la guardia, sebbene in alcuni momenti fosse dura.

Aveva tre figli, una moglie giovane. Come lui.

Solo che lui aveva la sclerosi. Lei, invece, aveva la passione per le discoteche e i “ritocchini” e nessuna intenzione di lavorare nonostante il mutuo per le sue operazioni di chirurgia estetica pesassero non poco sul bilancio familiare.

Il giovane si recava dallo psicologo per cercare di aiutare il cervello a non spegnersi troppo presto attraverso una buona dose di riabilitazione cognitiva. Non amava lamentarsi, ma ogni tanto cercava conforto, per continuare ancora a credere ad una vita quasi normale anche per lui.

Diceva che doveva essere forte per i suoi figli. A loro, il più delle volte preparava anche la cena. E chiaramente lavava i piatti quando la moglie era intenta a prepararsi per l’ennesima serata sulla pista da ballo. Se qualche notte la donna non rientrava, lui si metteva in auto e andava a cercala.

Giustificava ogni suo comportamento, cercando argomentazioni che fossero abbastanza valide davanti alla dottoressa che lo ascoltava. Probabilmente era lui il più duro a convincere se stesso di quanto diceva.

La sua più grande malattia non era certo la sclerosi, ma la solitudine. Era solo. A quarant’anni. Con la certezza che nessuna avrebbe voluto trascorrere del tempo con lui se sua moglie se ne fosse andata. Non ne poteva fare a meno.

Per quanto assurdo potesse sembrare, proprio lei gli dava la parvenza di normalità, di vita. Vederla divertirsi gli faceva dimenticare che la vita d’un tempo per lui era finita. Che non sarebbe mai tornato come prima e che avrebbe dovuto rinunciare a molto della sua identità.

Aveva la sclerosi da quando aveva 20 anni. Per tanto tempo aveva resistito ma poi si era visto cancellare sotto gli occhi il calcetto con gli amici, le ore piccole del weekend, l’indipendenza, i sogni e tutto ciò che a quell’età si possa desiderare.

I desideri della moglie gli avevano restituito i sogni infranti. E concedere a lei un fisico ed un volto da adolescente gli dava l’illusione di essere ancora abbastanza “maschio” per avere vicino una bella donna.

Forse esistevano farmaci per alleviare i dolori di quest’uomo.
E avrebbe potuto essere quasi autonomo per ancora molto tempo e forse avrebbe visto i suoi figli crescere e raggiungere l’indipendenza.

Di sicuro, fare i conti con le sue emozioni e ammettere di aver bisogno d’aiuto, sarebbe stata la parte più dolorosa del suo percorso verso la ricerca della normalità.

Lo fece con il coraggio di un leone e la fragilità di un bambino.

Riuscì a sentire il suo corpo, per la prima volta.

Riuscì ad amare ciò che era. E fu il suo più grande traguardo.

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