Da Isola allo Staffordshire seguendo il destino (il Duro del weekend)

Luciano Duro

Narratore e Sognatore

Luciano Duro
di LUCIANO DURO
Narratore e Sognatore

 

Incontrammo al Bar del Cinema-Teatro di Isola del Liri quella anziana coppia. Dopo il matrimonio era emigrata in Inghilterra in cerca di condizioni di vita più agiate. Lavorando sodo, i due avevano costruito, una solida fortuna attraverso un “Fish and Chips”, pietanza da trasporto tipicamente britannica che consiste in merluzzo fritto accompagnato da abbondanti, spesse e croccanti patate.

Si erano stabiliti a Stoke-on-Trent, una città, di oltre 200 mila abitanti, dello Staffordshire, nel nord-ovest dell’Inghilterra, famosa per le ceramiche in stile vittoriano, ma sostanzialmente industriale. Erano partiti nell’immediato dopoguerra e pur godendo di un certo benessere economico, non andavano oltre la loro piccola comunità familiare. Avevano una unica figlia, in età da marito. E apparve chiaro che la venuta ad Isola avesse lo scopo di trovare un bravo e onesto giovane che potesse da principio lavorare nell’attività. E successivamente, se fosse nata una reciproca simpatia, sposare quella figliola che come loro non si era integrata nella grigia città britannica.

L’incontro fu del tutto casuale. Ricordo che la nostra intenzione era di andare al cinema. Ma nell’attesa che iniziasse il film, ci trovammo fianco a fianco a prender un caffè. Giuseppe attraversava un buon periodo, aveva i capelli corti ed era curato nell’aspetto. Anche nei momenti peggiori non aveva mai avuto un grugno insolente e uno sguardo poco affidabile. Piacque subito alla moglie. L’affare si concluse con una stretta di mano e una settimana dopo Giuseppe dalle sponde del Liri passo alla riva del fiume Trent.

Lo accompagnai alla stazione e conoscendolo bene, non aveva mai avuto terreno stabile sotto i piedi, mi raccomandai affinché si comportasse correttamente, senza provocare traumi in quelle persone, così disponibili nei suoi confronti.

Stette due anni a Stoke. Mi scriveva quasi una volta al mese, diceva di stare bene e che aveva amici. Una volta mi inviò due dischi che sapeva essere di mio gradimento e che conservo gelosamente. Il nostro contatto epistolare non si interruppe mai e quando anni dopo ci lasciò e mi recai a casa sua insieme ai parenti, per dare una sistemata alla stanza dove viveva e raccogliere i suoi effetti personali, trovai in un cassetto, ben conservate, tutte quelle lettere che gli avevo spedito.

Era il 1975 e mi trovavo a Londra, pensai di fargli una visita. Una sorpresa senza avvertirlo. D’altronde avevo l’indirizzo del “Fish and Chips” e senza pensarci, all’alba, presi un autobus che mi conducesse a Stoke-on-Trent. Fu un viaggio lungo di oltre tre ore che non conobbe soste, la macchina percorse interminabili distese verdi, praterie, campi coltivati e piccoli e misteriosi villaggi nascosti, che appena si intravedevano, dal finestrino, in lontananza, nonostante quel cielo fosco e nuvoloso, che pareva voler coprire d’acqua, da un momento all’altro, il mondo intero.

Finalmente giunto a destinazione, mi accolse una città deserta. Di tanto in tanto, con passo svelto transitava qualche passante e dovevo io stesso spostarmi per non esserne travolto. Mi chiesi come Giuseppe potesse vivere in quel posto tetro. La spiegazione fu chiara la sera, quando, terminato il lavoro, la città si animava nei Pub e nei locali che suonavano musica dal vivo. Persino i negozi preferivano aprire nel tardo pomeriggio. Non fu difficile trovare il “Fish and Chips”. Sia il marito che la moglie mi abbracciarono e subito insistettero affinchè mangiassi qualcosa. Chiesi dell’amico e ci fu un imbarazzante silenzio. L’uomo parlò, dispiaciuto e preoccupato per un figlio senza responsabilità e senso del dovere. Non stava più con loro da oltre un anno, passava solo per ritirare le mie lettere e pensavano che lo avessi saputo. Aveva conosciuto una ragazza e viveva con lei, insieme ad una comunità di pakistani.

Lo fecero cercare e venne subito per prendermi e condurmi dai suoi amici. Mi raccontò che aveva abbandonato il precedente posto perchè gli era sembrato una prigione, lo controllavano e non volevano che frequentasse la giovane con la quale aveva un particolare rapporto affettivo. Conobbi gli amici, erano allegri, cantarono e suonarono strumenti a percussione, in mio onore, per tutta la notte, già mi conoscevano attraverso le lettere. Vivevano fabbricando professionalmente oggetti di cuoio e bigiotteria, e quella ragazza era di una dolcezza e una delicatezza che trasferiva una piacevole sensazione di benessere. Fui dispiaciuto per quei due signori che avevano progetti diversi, ma tornai a Londra felice, mai avevo visto il mio amico così bene, contento e appagato nei propri desideri, come allora.

L’inverno successivo scrisse una lettera nella quale comunicava che stava tornando a Isola. Niente e nessuno poteva trattenerlo. Non sopportava legami con chiunque volesse condizionare la sua vita. Fu lui stesso a condizionarla, dopo qualche anno, in un gioco più grande di lui.

Un pomeriggio si buttò sulla mia macchina, con il rischio che lo investissi, per chiedermi dei soldi. Non ebbi problemi a darglieli ma mi accorsi, allora, che in lui qualcosa era cambiato. Aveva spinto il gioco fino alle estreme conseguenze, era divenuto a quarantanni, lui che temeva persino una puntura sulle chiappe, tossico-dipendente da eroina. Gli amici vollero aiutarlo ma non possedevano una medicina altrettanto efficace.

L’atto finale fu quella triste mattina che mi mandò a chiamare da un compagno di sventura. Era a letto e si sentiva male. Andai in quella caotica stanza dove viveva, sul comodino aveva la foto di Gesù, del Bambino di Gallinaro, del Buddha ed anche la mia. «Aiutami, questa volta non ce la faccio, sono arrivato alla fine, accompagnami all’ospedale». Così feci con grande tristezza.

Morì dopo qualche giorno. Voleva parlarmi. Aveva da dirmi tante cose ma la voce non usciva dalla bocca, non riuscii a capire cosa volesse dirmi, ma non c’era bisogno, mi aveva già comunicato tutto con gli occhi, senza proferire parola.

Vedi quella montagna, ci saranno alberi verdi e prati io non vedo altro che un mucchio di pietre” Mi disse un giorno che stava particolarmente male.

FIGLIO DEL VENTO
Eravamo sulla stessa strada
quando ci incontrammo,
chiesi il suo nome,
chiamami figlio del vento,
ho fretta di arrivare
porto il nome di tutti quelli che cercano la montagna di zucchero
ho voglia di dolcezza,
troppo amara è la vita.
Eravamo sulla stessa strada
incontrammo uno stregone.
Ho quello che cerchi,
posso renderti la vita dolce,
non vedrai più il buio della notte ma il sole del giorno.
Lo seguisti
il vento soffiò forte
portò via ogni passato ed ogni presente.
Te ne sei andato lasciandomi il tuo vero nome e la tua storia
Joseph King, re senza corona.
Il vento cessò
e le nuvole erano montagne di zucchero.
Eravamo sulla stessa strada quando ci incontrammo
mi voltai e non c’eri più.