La mia amarezza nel tribunale di Cassino

di MASSIMO DELLA PENA

Indosso la toga già da alcuni anni. Volevo vestirla fin da bambino: per combattere le ingiustizie, difendere i deboli, scoprire le verità che altri avevano ignorato.

Il senso dell’ironia che rende così costante la casualità del Destino, alcuni mesi fa mi ha portato a lasciare il posto in cui sono nato ed ho studiato: sono approdato a Cassino e adesso esercito nel suo tribunale.

Ci sono entrato con rispetto e diffidenza: lo conoscevo per ciò che mi aveva trasmesso il magistrato Dante Troisi nelle pagine del suo ‘Diario di un Giudice’. Ricordo ancora la stretta allo stomaco ed il senso di soffocamento che ho provato poche settimane fa quando ho varcato la sua soglia per la prima volta e mi sono ritrovato dentro i corridoi dalle linee squadrate ed anonime di quel Palazzo di Giustizia: ho avuto l’impressione d’essere stato appena inghiottito in un capitolo di Troisi con il suo linguaggio essenziale, fatto di verbali dei carabinieri e di improbabili interrogatori, dai quali emergono due mondi lontanissimi fra loro, quello della Giustizia e quello del Popolo in nome del quale essa viene esercitata.

Ogni giorno che trascorro a Cassino mi domando se sia io ad avere sbagliato professione o se sia finito in un Paese nel quale la Giustizia ormai è solo burocrazia con la toga.

L’ultima dimostrazione l’ho avuta da poco. Attendevo che venisse chiamata la mia causa. Succede che due colleghi (stimati, lo deduco dal fatto che al loro passaggio ci sia stata tanta deferenza di alcuni e tanta malignità di altri) che rispondono ai nomi di Sandro Salera e Giuseppe Di Mascio (mi dicono essere anche il presidente del Foro), chiedano al giudice se il loro fascicolo può essere trattato scavalcando il ruolo. Cioè se la loro causa può essere chiamata prima delle altre, in quanto entrambi avevano anche un’altra causa delicata che li attendeva di lì a poco in un’altra sezione.

Garbo professionale vuole che, in presenza di una richiesta motivata di trattazione urgente, si proceda accontentando chi chiede di anticipare. Ma questa volta il giudice ha detto no: «Spiacente, c’è prima il processo ad un detenuto».

Non l’ho mai visto fare in nessun altro tribunale: i processi con i detenuti sono quelli che aspettano; dopotutto, cosa ha da fare di così urgente un detenuto? Se viene condannato rientra in cella; se viene assolto, rientra in cella a scontare la condanna precedente. Non è un ‘Cautelare’ cioè una persona in custodia che attende di sapere se deve essere liberata. Forse in questo caso il giudice temeva di fargli perdere la puntata di Forum in tv?

Trascorre un’ora, il processo viene celebrato. Ed io comincio a pensare di avere le allucinazioni, d’essere ancora nel mio letto e di non avere mai varcato la soglia di un tribunale per quella mattina. Ma con le mie orecchie ho sentito dire all’imputato: «La sentenza la vuole subito o possiamo dargliela nel pomeriggio?». E quello, come se fosse atto dovuto: «Non hai capito, me la devi dare subito».

Mi spiegano che a Cassino bisogna fare i numeri, ci sono le statistiche da rispettare, che Roma è ad un passo e qui i giudici hanno il fiato sul collo, che al Palazzaccio nella capitale interessano solo le statistiche, non le storie e gli uomini che ci sono dietro.

C’è qualcosa che non quadra. Sui libri di Diritto ho studiato che le norme, per essere efficaci, incutere timore, essere rispettate, devono avere la ‘parte coercitiva’: cioè devono prospettare una punizione.

A Cassino la parte coercitiva mi sembra che non sia per gli imputati. Non sempre almeno.