Addio Luigi Cardarelli, il papà del giornalismo pontino

Si è spento alla clinica “San Marco” Luigi Cardarelli. Aveva 76 anni è stato alla redazione del Tempo, poi in quella di Latina Oggi (che aveva fondato insieme a Paolo Brunori e Romano Rossi) che ha diretto il giornale fino al 2005. Sferzante con la classe politica, con un suo modo tutto particolare di raccontare le vicende di cronaca, non amava i “salotti” e alla città aveva dedicato un paio di libri. Da ultimo “L’incompiuta”

Lidano Grassucci

Direttore Responsabile di Fatto a Latina

Dal 2004 non ci parlavamo, da quando andai via, insieme a Giovanni del Giaccio, da Latina oggi. Lui era sonninese rancoroso, io setino orgoglioso. Lui figlio di gente chiusa tra montagne e confine, io che rimugino per il tempo della solitudine che hanno i butteri. Ma dall’87 al 2004 ogni santo giorno che veniva su questa terra io e lui ci siamo visti, parlati arrabbiati, fatto pace, ragionato.

Luigi Cardarelli è morto questa notte, con la stessa discrezione pignola che lo ha caratterizzato per tutta la vita. Era un giornalista “riservato” (che è un ossimoro) quanto io ero “confusionario”: ma va detto che la mia generazione di giornalisti di Latina senza di lui non ci sarebbe semplicemente stata.

Non ci siamo salutati più e lui ed io sappiamo la ragione, le ragioni, le reciproche delusioni. Ma prima ragionamenti su quello che per lui era l’unico amore, il giornale. Io lo tradivo quell’amore perché amavo, e amo, di più la politica. Diversi.

Ho visto la sua rubrica settimanale “Settimo Giorno”, crescere da una colonna ad una pagina intera partendo dalla prima. Uno scrivere meticoloso, di ricordi, di un antico rigore morale. Lui era quasi quacchero nell’etica pubblica, quanto io accomodante nell’anarchia sociale.

Per anni alle 15 c’è stata la riunione di redazione che mal sopportavo, ma subivo. Poi lasciavo la giacca sulla mia postazione e andavo in the square (al bar) fino alle 20. La giacca lo rassicurava che non fossi andato via. Quando mancava un quarto d’ora alle 20, arrivava la telefonata della sua segretaria, Antonietta Romaldetti: “Lidano dove sei, Gigi si sta a incazzà”. E lei era più incazzata di lui perchè lo avevo fatto incazzare.

Rientravo, era torvo. Io a scrivere sono tanto veloce quanto campione dei refusi (non rileggo mai e si vede) consegnavo la mia pagina in zona Cesarini per la riunione della prima con lui che brontolava, che mi guardava storto. Salvo ricominciare il giorno dopo. Così per tre lustri almeno.

Era figlio di una Sonnino che per riscattarsi dalla marginalità aveva mandato i suoi figli migliori a studiare dai preti. Studi dove la morale e la vita civile erano tutt’uno. Noi eravamo figli della scuola pubblica e anche della contestazione del ’77. Lui restava conservatore ma amava De Andrè, amava… il giornalismo, lo viveva come una religione, religiosa e non laica.

Se ne è andato un pezzo della mia vita, un pezzo grosso, ma grosso tanto. Quel saluto che non ci siamo dati più pesa. Avrei voluto dirgli “come va?”, “come stai?”, parlare di come si fa sto sporco lavoro che, è vero è sempre meglio di lavorare, ma che ti logora l’anima, che ti uccide notte per notte, cancellandoti dalla vita degli altri nella follia di volerla raccontare.

Sai che non te la do vinta, so che in ruoli invertiti avresti fatto lo stesso. E per questo nemmeno ora ti saluto. Ma sappiamo anche quanto avremmo voluto parlare ancora, per il tanto parlato fino ad allora.

E’ grigio oggi Gigi. È grigio ed a Latina è calato quell’umido che pare di stare nelle tue montagne, in questo piano, di case piccolo borghesi ed ordinate che hai raccontato, come le facce del potere.

Dio mio, quanto è umido.

Se ne è andato uno dei padri di questo lavoro e questo ti va riconosciuto. Buon viaggio, ma sai che ci rivedremo e credo presto e mi farai cercare “Maledetta giacca, Lidano mi ha prende in giro, pensa che non ho capito”. E scusa i refusi.