La fiaba non è una favola (di A. Cardamone)

Il professor Alonso Cardamone è celebre per i suoi scritti teatrali, per i suoi libri, le sue lezioni. Oggi ci regala una riflessione sulla differenza tra fiaba e favola. Nella sezione Culture.

di Alfonso CARDAMONE
Poeta, professore, saggista,
autore teatrale

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Mi è capitato, di recente, di rappresentare pubblicamente il mio sconcerto, e perché no, la mia indignazione per la disinvoltura con cui, da qualche tempo a questa parte e in coerenza con il degrado progressivo dell’uso corrente della lingua italiana, il termine “fiaba” venga confuso, e tendenzialmente sostituito, ai più diversi livelli e forme di comunicazione, con quello di “favola”.

L’origine etimologica comune dei due termini dal latino “fabula” (“parola”) non giustifica lo scempio che con tale pratica si compie, cancellando in un colpo solo la millenaria storia difforme di due generi letterari differenti per origine, stile, struttura e funzioni.

 

Una cosa è l’impiego estensivo di favola, soprattutto nel linguaggio familiare, per significare cosa non vera, fandonia, bubbola, o ancora cosa fantastica ecc.; altra confondere sul piano letterario favola con fiaba. La favola in quanto genere letterario si definisce, a partire da autori classici quali Esopo e Fedro, come forma narrativa (in poesia o in prosa) che affida a personaggi animali la funzione di rappresentare, con intenti di ammonimento moralistico, comportamenti, vizi e virtù dell’uomo socializzato.

La fiaba, la cui origine si colloca agli inizi dell’evoluzione culturale dell’umanità, è derivata, secondo la lezione proppiana, dalla memoria delle esperienze e delle narrazioni, vissute le prime e ascoltate le seconde dai giovani nei rituali di iniziazione delle società di clan.

 

Memoria che con il trascorrere del tempo si è andata trasformando, adattandosi a nuovi costumi e valori culturali, in racconti di incontri fantastici tra mondo umano e mondo sovraumano regno della magia. Racconti che si sono tramandati oralmente e anonimamente a livello popolare.

In questo senso, la fiaba della tradizione orale non ha mai avuto intenti moralistici (questo capiterà solo ai tardi interventi dei narratori cortigiani alla Perrault), ma se mai la funzione di fare acquisire, poeticamente, all’uomo una speciale forma di dominio sul mondo.

Mettendo in scena come protagonista un personaggio “isolato”, che si rivelerà nello svolgimento della narrazione un eroe attivo e intraprendente, un viandante in cerca dell’avventura e del destino (che alla fine gli arriderà), nella forma e nel contenuto la fiaba sembra veramente volerci assicurare –per citare il Lüthi- che “Anche se tu stesso non sai da dove vieni e dove vai, non sai quali potenze influiscano su di te e come lo facciano, non sai quali rapporti ti avvolgano, tu puoi essere certo che ti trovi in rapporti assolutamente logici”.

In questo la fiaba è veramente una risposta ai demoni.

 

La Fiaba, dunque, è un genere di narrazione originariamente orale ed anonima, le cui radici sprofondano, così come accade per il mito e per la stessa leggenda eroica alla base dell’epos, nei tempi più lontani della comunicazione umana.

Pur scaturendo dallo stesso magma delle origini preistoriche, la fiaba, che, come vedremo, ha evidenti punti di contatto con gli altri generi citati, da essi si distingue per specifici, esclusivi connotati formali e strutturali, che le sono peculiari.

 

Nella seconda metà del secolo scorso due autori si sono distinti in maniera particolare per il contributo dato alla definizione del genere fiabistico in quanto tale.

Innanzi tutto, il già citato studioso svizzero Max Lüthi, autore del testo fondamentale “La fiaba popolare europea (forma e natura)” (titolo parlante!), che è colui che si è distinto per avere individuato gli elementi strutturali specifici della fiaba e le leggi in base alle quali essi si compongono e si associano dando vita alla narrazione fiabistica. Questi elementi sono (e li cito nell’ordine precisato dal Lüthi stesso):

Unidimensionalità; assenza di prospettiva e di spessore; tecnica della successione degli episodi e delle figure; isolamento degli episodi e delle figure; disposizione del personaggio principale all’universale.

 

Vediamo come si configurano questi elementi nella struttura del genere fiabistico.

Nella fiaba, la creatura terrena, l’ “eroe” per così dire della storia, che incontra un essere ultraterreno (maga, fata, baba-jaga, orco, aiutante magico, animale riconoscente ecc.), non ha mai la sensazione di imbattersi in un’altra dimensione, non manifesta né curiosità né orrore metafisico. L’eroe della fiaba non è una persona piena di stupore, bensì un soggetto ben determinato ad agire. In questa unidimensionalità, in cui protagonisti e antagonisti umani trattano da pari a pari con esseri non-umani, risiede la prima legge connotativa del genere.

 

Assenza di prospettiva e di spessore. Nella fiaba non solo non è possibile percepire la frattura che separa la dimensione mondana da quella soprannaturale, ma neanche cogliere i segni di qualsivoglia complessità e profondità, sia a livello psicologico dei personaggi, sia di ambientazione. I suoi personaggi, così come gli oggetti con cui vengono in contatto, sono figure senza corpo, forme bidimensionali piane, a volte persino lineari, quasi figurine di carta. Figure senza spessore, senza mondo interiore e senza un vero ambiente che le circondi, sono anche prive di rapporti con il passato e con il futuro, cioè col tempo (e si pensi, per esempio, al caso esemplare di “Rosaspina” dei fratelli Grimm, la versione della “Bella addormentata” più vicina all’originale orale popolare, in cui i personaggi, isolati e fuori del tempo, non invecchiano).

 

Abbiamo così introdotto anche le “leggi” 3 e 4 del Lüthi, isolamento e vocazione all’azione. I protagonisti delle fiabe agiscono sempre a freddo: qualità e sentimenti si esprimono sempre in pure azioni. La loro vocazione all’isolamento e all’azione ne fa dei viandanti (nella medesima fiaba, il padre invia i figli per il mondo, prima i due maggiori, che sistematicamente falliscono, sia successivamente il più giovane che porta a segno la missione).

Questa legge dell’isolamento, coerente con lo stile astratto della fiaba, è complementare all’altra delle colleganze universali, per cui figure isolate si inseriscono in un armonico gioco d’insieme. I protagonisti delle fiabe sono sempre gli “isolati” ed è ad essi che tocca il favore della sorte. Proprio essi si trovano, in quanto isolati, in invisibile contatto con le potenze essenziali del mondo. E i compiti, le difficoltà, i pericoli, gli ostacoli che all’eroe si oppongono non sono che occasioni alla manifestazione del destino.

Gli stessi aiuti magici, che l’eroe puntualmente riceve, non gli servono per soddisfare le sue voglie, ma soltanto per poter seguire le vie del destino.

 

I veri eroi delle fiabe sono il “diseredato”, il più giovane”, a volte ritenuto addirittura il “più sciocco”, l’ “orfano”, lo “sperduto”, in una parola gli “isolati” che, appunto in quanto tali, sono come nessun altro liberi e disponibili verso le epifanie di ciò che appare come essenziale per il compimento del destino.

La fiaba, ci dice Lüthi, è contemplazione onirica del mondo. Una contemplazione vissuta da un eroe attivo e intraprendente, un viandante in cerca dell’avventura e del destino, capace di incontrare l’epifania di forme della magia e dello sciamanesimo senza farsene meraviglia e semmai pronto ad apprenderle.

E se sul piano dell’analisi formale la teoria del Lüthi si incontra con quella strutturale dello studioso russo Vladimir Propp della Morfologia della fiaba, su quello del contenuto il suo studio si incrocia, proprio a proposito della contemplazione onirica del mondo, con quella del Propp delle Radici storiche dei racconti di fate.

 

La tesi del Propp è che le fiabe, cioè i racconti di magia abbiano una radice antichissima collegata ai rituali di iniziazione delle società di clan di cacciatori e raccoglitori. Viene quindi confermata l’origine orale delle storie, che sprofonderebbe sia nella memoria delle esperienze collegate ai riti, sia nel ricordo delle narrazioni che a quelle esperienze si accompagnavano e che le stesse contribuivano a tramandare. Particolarmente interessante è poi il collegamento, che l’opera del Propp suggerisce, della fiaba con il mito sul piano della comune origine ritualistica.

 

Facciamo un esempio di trasparente corrispondenza di un motivo presente sia nel mito che nella fiaba, che, per ambedue i generi, discenderebbe dal rito. Intendo parlare del motivo della funzione magica del cibo dei morti, presente sia nelle numerose versioni del mito della discesa di Persefone agli inferi e sia in un certo modello di fiabe popolari europee. Nel mito greco Ade, lo Sposo Infernale, dà da mangiare a Persefone un magico seme di melograno “affinché essa non restasse per sempre presso Demetra”.

Questo seme di melograno avrebbe avuto cioè il magico potere di ricondurre periodicamente Persefone nel regno dei morti, corrispondendo in maniera speculare alla funzione, demandata nei rituali funebri dell’antichità al cibo dei morti, di trattenere nel mondo ctonio chi ne avesse mangiato; cibo che nelle fiabe ritorna spesso sotto forma di ciò che la strega, o baba-jaga russa, o orco, o uomo selvaggio, o chi altri per loro, “dà da mangiare e bere” all’eroe che si è avventurato fino alla “capannuccia nel bosco”, o fino ad altre sedi, che costituiscono comunque sempre un limite tra mondo dei vivi e mondo dei morti.

 

In molte delle antiche fiabe russe raccolte da Afanasijev compare la baba-jaga sulla frontiera dell’ultimo dei reami, in una casetta in mezzo al bosco folto e oscuro spesso descritta come “un’isba dalle zampe di gallina”. Essa è definita come una “nonnina”, o una “vecchia arcistravecchia” un po’ particolare, perché il viandante si può rivolgere a lei chiamandola “gamba d’osso” o “gambe ossute, natiche nocchierute”. Strana è la baba-jaga come strana è la casetta che abita. Perché?

Intanto, dobbiamo sapere che la “capannuccia” è in grado di volteggiare, cioè di ruotare intorno al suo asse, cosa che fa alla richiesta dell’eroe: “Capannuccia, capannuccia, volta il davanti a me e il dietro al bosco! Lascia entrare il viandante”. Perché la capannuccia, o isba, o casetta dovrebbe rigirarsi per fare entrare il viandante? Evidentemente, perché la capannuccia è situata su una frontiera invalicabile che il viandante potrebbe varcare solo a condizione che la guardiana accettasse di farlo entrare facendo ruotare la capannuccia su se stessa. Cosa che accade solo dopo che egli, avendo mangiato e bevuto il cibo dei morti offertogli, sarà stato creduto dalla baba-jaga proprio per questo un morto.

 

La baba-jaga è l’estrema guardiana del mondo dei morti, espresso nelle fiabe il più delle volte come l’ultimo dei reami, situato al di là delle acque della morte. Ed essa stessa può essere raffigurata come un cadavere dentro una bara: a volte si legge che è sdraiata nella capannuccia e tocca il soffitto con il naso: appunto un cadavere in una bara! E qui (anche per capire il particolare curioso delle zampe di gallina) conviene rifarsi direttamente al Propp delle Radici storiche dei racconti di fate.

 

Si riteneva che durante il rito il fanciullo morisse e che quindi risuscitasse come un uomo nuovo. È questa la così detta morte temporanea. La morte e la risurrezione erano provocate da atti figuranti l’inghiottimento e il divoramento del fanciullo ad opera di animali favolosi. Si immaginava che egli venisse inghiottito da questo animale e, dopo aver trascorso qualche tempo nello stomaco del mostro, ritornasse alla luce, vale a dire fosse sputato fuori o vomitato. Per la celebrazione di tale rito si costruivano talvolta apposite case o capanne aventi la forma d’un animale, le cui fauci erano rappresentate dalla porta … Il rito si celebrava sempre nel folto della foresta o della boscaglia…”.

Fermiamoci qui: basti quanto abbiamo sopra riferito per capire che l’isba dalle zampe di gallina, in cui dimora la baba-jaga, oltre a ricordare una bara, rappresentava anche la proiezione fantastica ed il residuo fiabistico della capanna della morte temporanea dei riti di iniziazione giovanile che, di necessità, era l’ingresso al mondo dei morti.

 

Grazie ai doni magici ricevuti dall’aiutante magico, che interviene al momento opportuno nella narrazione della fiaba, e che spesso è un animale fatato o a volte la stessa baba-jaga, l’eroe raggiunge l’ultimo dei reami, cioè il regno dei morti e ne ritorna con la principessa, che sposa, arricchito della scienza furba, cioè della conoscenza dell’arte magica, così come accadeva all’iniziato nei riti di iniziazione nelle società di clan.

Nella fiaba d’apertura del libro di Afanasjev, quella del “Principe Ivan, dell’uccello di fuoco e del lupo grigio”, la coprotagonista Elena la Bella risiede in un iperbolico ultimissimo dei reami, in un altro mondo che non può che connotarsi come l’altro mondo tout court, gli inferi, il mondo dei morti, e l’aggettivo che qualifica il giardino in cui la Bella esce a passeggiare con le governanti e le dame di corte, “incantato”, è in questo senso particolarmente significativo.

Esso ha una lunga e significativa storia di corrispondenze nelle più diverse tradizioni mitologiche dell’antichità. Non erano forse “incantati”, per esemplificare, il mitico giardino delle Esperidi, che segnava, per i Greci, l’estremo limite occidentale del percorso diurno del sole, o il Giardino delle Delizie che, all’uscita della galleria del Sole, accoglie l’eroe Gilgamesh in cerca del segreto dell’immortalità, anch’esso limite di passaggio ed ingresso al regno della morte?

 

Restano da chiarire (brevemente) almeno alcuni aspetti relativi a:

  1. Il “fare a pezzettini”, pratica tipica dell’ “uccisione rituale” dei riti di iniziazione.
  2. La figura dell’aiutante magico.
  3. L’intervento degli animali riconoscenti.

 

Nella fiaba del “lupo grigio”, notiamo per prima cosa che la principale prerogativa di Elena è quella di essere relegata in un “altro mondo”, una bella che da quel mondo è destinata ad essere portata via dall’eroe. In più, Elena appare come una figura femminile apportatrice di conflitti cruenti: è per impossessarsi di lei che i fratelli maggiori uccidono Ivan, anzi, lo “fanno a pezzettini”, espressione estremamente interessante che richiama immediatamente una pratica tipica di quella uccisione rituale che nelle antichissime società di clan era legata alla morte apparente che l’iniziando doveva simbolicamente subire per poi essere resuscitato come uomo nuovo. Così accade nella fiaba: Ivan viene resuscitato dalle arti magiche del lupo grigio (dotato di abilità straordinarie tra cui fondamentale quella di metamorfosi), il quale nella fiaba ha il ruolo di aiutante magico e che corrisponde, nel rito, agli stregoni e sciamani che nelle società cosiddette primitive, assimilabili per certi versi alle società di clan dei tempi remoti, hanno la funzione di ministri dell’iniziazione.

 

Nelle fiabe di questo tipo è possibile incontrare anche le figure degli animali riconoscenti, anche queste estremamente interessanti perché ricollegabili agli animali totemici delle società di cacciatori, di cui nella fiaba appaiono gli eredi con funzioni sia pure dimidiate rispetto agli archetipi di riferimento. E mi spiego.

Già nella fiaba del lupo grigio compare il personaggio del Corvo proprio nel momento in cui il lupo grigio stava per sbranare un corvicino pronto a beccare il corpo del principe Ivan ridotto a pezzettini dai fratelli. E che cosa accade? Leggiamo:

Il corvo scese a terra, si posò a una certa distanza dal lupo e gli disse – O tu, lupo grigio! Non toccare il mio figliolino; non t’ha mica fatto niente. Ascolta, Corvo Corvonic, – disse il lupo grigio- io non toccherò il tuo bambino e lo lascerò sano e salvo quando tu m’avrai reso un servigio: vola ai confini del mondo, nell’ultimo dei reami e portami l’acqua della morte e della vita -. Al che Corvo Corvonic rispose: Io ti renderò questo servigio, ma ti raccomando di non toccare mio figlio.

 

Per capire bene il senso di questo intervento che fa di Corvo Corvonic un animale riconoscente ci sposteremo su un’altra fiaba, quella dell’ Uccello di fuoco e la principessa Vassilissa. Qui l’eroe, il prode arciere deve, ad un certo punto della storia, cercare sul fondo del mare un abito nuziale. È disperato e piange.

In suo soccorso accorre il suo valente cavallo nella funzione di aiutante magico.

Giunti che furono sulla riva del mare, ai confini del mondo, dove spunta il rosso solicello, il valente cavallo vide un enorme gambero marino che strisciava sulla sabbia, e gli pose sul collo il suo pesante zoccolo. Disse il gambero marino: – Non uccidermi, lasciami vivere! Farò tutto quello che t’occorre. Il cavallo fa la sua richiesta e allora il gambero urlò con voce profonda per tutto l’azzurro mare; subito le acque ribollirono, da ogni parte s’arrampicarono sulla riva gamberi grossi e piccoli; una quantità prodigiosa! Il vecchio gambero diede loro un ordine ed essi si gettarono in acqua; un’ora dopo traevano dal fondo del mare, da sotto la grande pietra, l’abito nuziale della principessa Vassilissa.

 

Bene, la figura imponente ed autorevole del gambero gigante a cui tutti gli altri gamberi marini prontamente obbediscono, come se egli fosse un loro “padrone” o “re”, è la migliore conferma dell’interpretazione secondo cui il motivo dell’animale riconoscente delle fiabe discenderebbe dal ricordo degli animali totemici. Gli animali risparmiati e non mangiati dall’eroe (o dal suo aiutante magico come nei due casi citati) altro non sarebbero se non “animali antenati”, animali che non è lecito uccidere né mangiare e che offrono il proprio aiuto proprio perché sono, in origine, antenati totemici.

Finché il totemismo esistette, il divieto di mangiare l’animale totemico fu assoluto e indiscutibile ed osservato dagli uomini come un fatto naturale e religioso. Più tardi, nelle fiabe, si trasformò nella preghiera d’essere risparmiato.

La formula “non mangiarmi e saremo fratelli” deve essere intesa come una trasposizione di senso della formula totemica “non mangiarmi perché siamo fratelli” (Propp).

 

Tutto questo che ho cercato di di sintetizzare, e altro ancora, assegna alla fiaba la sua dignità di genere specifico ed unico, ed al tempo stesso suggerisce i rapporti di contiguità con il mito e con l’epos, che si possono ravvisare quando i tre generi, per così dire, si toccano nel riferimento più o meno diretto ai riti di iniziazione.

Cosa che comunque mai accade né potrebbe mai accadere con la favola, genere con il quale la fiaba non può mai e in nessuna maniera essere confusa!