Ciarrapico: Caracciolo è stato il mio benefattore

Foto: copyright Imagoeconomica Carlo Carino

In memoria di Giuseppe Ciarrapico, l'ultimo degli editori. Paolo Madron lo intervistò per Il Sole-24 Ore nel gennaio 2009. Realizzando uno degli affreschi più belli del ruvido editore che inventò Ciociaria Oggi e Latina Oggi

Giuseppe Ciarrapico, Ciarra per gli amici, senatore da sei mesi («però quando ordinano di votare intruppati e non posso usare la testa mi annoio», dice della sua breve permanenza a Palazzo Madama), una vita industrialmente e giuridicamente assai tumultuosa, è stato uno dei più grandi amici di Carlo Caracciolo.

Accoppiata controversa, discussa, buona soprattutto per alimentare una sorta di commedia alla Guareschi, dove però il rosso principe partigiano e il nero cui neanche la contiguità andreottiana ha scalfito la purezza del primigenio credo fascista non litigavano mai.

Anzi, i due si sono frequentati, cercati, aiutati per quasi mezzo secolo, alimentando un legame dove il contrasto politico lasciava il posto al culto di un’amicizia tutta giocata tra il serio e il faceto, e fatta di trame, donne, miliardi e tanta goliardia. E contrassegnata da quello che resta il capolavoro del 75enne ex re delle acque minerali: la mediazione sui destini della Mondadori che alla fine degli anni Ottanta oppose in una guerra senza esclusione di colpi De Benedetti e Berlusconi.

*
Quando l’ha visto l’ultima volta?

A casa sua il giorno prima che morisse. Stava malissimo ed era in uno stato di torpore perché lo sedavano. Poi improvvisamente si è svegliato e mi ha sussurrato: «Almeno muoio nel mio letto». Negli ultimi tempi si rammaricava che la vita gli stesse scappando via. E per lui vivere era importante.

Si è ricordato anche di lei nel testamento?

Sì, mi ha lasciato un bel bastone da passeggio nero con il pomello d’argento.

Eravate il rosso e il nero, il partigiano e il fascista, eppure parlava sempre bene di lei

Carlo aveva questa grande dote: non parlava mai di cose che potessero creare conflitti, altrimenti non si spiegherebbe il nostro cinquantennale rapporto.

Cinquantennale? Pensavo vi foste conosciuti durante la guerra per la spartizione della Mondadori.

Macché, ci siamo conosciuti per caso agli inizi degli anni Sessanta. Ci incontrammo alla fiera delle macchine per tipografia ad Hannover. Ci presentò un certo commendator Capitini di Milano. Uno scaltro brianzolo che comprava roba vecchia e la rimetteva a nuovo.

Che ci facevate ad Hannover?

Stavano arrivando dall’America le prime roto-offset. Carlo ne voleva una, perché aveva in mente di comprare Il Telegrafo, che poi sarebbe diventato Il Tirreno. Così facendo avrebbe abbassato i costi di stampa.

E come finì?

Che siccome quelle macchine costavano una cifra, ci garantimmo a vicenda. Facemmo l’accordo con i tedeschi al ristorante della stazione di Hannover, avevamo trovato un cameriere italiano che poteva farci da interprete. Me lo ricordo bene perché io e Carlo mangiammo una zuppa con i knuddel che digerimmo l’anno appresso. E da lì diventammo grandi amici.

Lo sapeva che poco prima di morire aveva dato mandato al suo avvocato di comprare azioni Espresso?

No, ma siccome disponeva di una grossa liquidità, sapevo che ogni tanto si toglieva lo sfizio di arrotondare la sua quota. Si divertiva a fare queste improvvisate, come quando comprò un pacchetto di azioni Cofide.

Si dice che lo facesse per punzecchiare l’Ingegnere.

Beh, c’era rimasto male quando gli aveva tolto la presidenza del gruppo. Però i due in fondo si piacevano e si stimavano.

Ci rimase male anche perché quando finì il rapporto con Marco Benedetto lo venne a sapere dai giornali.

Sì, ma lì è stata colpa di Marco che è un lupo solitario e si tiene tutto per sè.

Difficile immaginarlo per due che abitavano a venti metri uno dall’altro, si vedevano in ufficio e spesso mangiavano insieme.

Mangiavano a casa di Marco. Bella casa, ma tutta buia, da incubo. La voleva comprare mia moglie prima che la prendesse lui. Ma quando l’ho vista le ho detto: per carità, qui di notte girano i fantasmi.

Era un metodico Caracciolo…

Per fortuna la metodicità coincideva con il suo divertimento, che era andare ogni mattina al giornale. Poi è vero che all’una in punto, cascasse il mondo, mangiava a casa sua. Al pranzo seguiva l\’immancabile riposino, quindi alle tre era di nuovo all’Espresso.

Metodico anche con le donne, nel senso che non gliene scappava una.

Ultimamente aveva preso una paurosa sbandata per Ségolène Royal. Credo, anzi ne sono certo, che abbia comprato Libération solo per fare colpo su di lei, che però non se lo filava nonostante le avesse pagato una cena elettorale per 300 persone.

Per questo andava spesso a Parigi.

Beh, c’era un legame con la città anche perché lì due anni fa gli avevano fatto quella miracolosa operazione che gli ha prolungato la vita. L’ultima volta ci siamo andati insieme perché gli ho organizzato un pranzo con Jean Marie Le Pen.

Quello del Fronte Nazionale?

Carlo voleva conoscerlo, lo incuriosiva il personaggio. Il conto alla fine lo pagò Le Pen.

Caracciolo era un partigiano sui generis, un po’ snob. Come quando raccontava quella storia del sindaco di Latina, Aimone Finestra, che ai tempi della Repubblica sociale voleva fucilarlo e poi invece si ritrovarono sessant’anni dopo a cena insieme.

Macché fucilarlo, era una balla che raccontavano quei due. Diciamo che Finestra è fantasioso di suo, e Carlo lo era ancora di più. Si sono sempre rimpallati ‘sta storiella, visto che avendo la tenuta in provincia di Latina i due si vedevano.

Vi incontravate spesso, lei e Caracciolo?

Lunghe serate, piacevolissime. Anche perché Carlo era sempre circondato da belle donne, cosa che suscitava l’ammirazione di suo cognato che pure di donne se ne intendeva.

Era una gara tra due formidabili tombeur de femmes 

Prima che cognati erano amici. Mi ricordo quella volta che sono andato allo stabilimento Fiat di Cassino ad accompagnare Andreotti per la presentazione della Regata. Appena scesi dall’elicottero ci venne incontro Agnelli il quale, invece che occuparsi di Andreotti, mi prende in disparte e mi dice: «So che lei Ciarrapico è molto amico di mio cognato». Voleva sapere delle donne.

È vero che presentò a Caracciolo anche Raul Gardini?

Lo portai a pranzo da lui, nella casa di via della Lungarina, e Raul rimase deliziato della pasta al sugo di zafferano che aveva preparato Kemal, il cuoco. Non so perché, Carlo lo spacciava per bengalese ma era egiziano.

Poi ci fu la vicenda Mondadori. Com’è che lei diventò il mediatore tra Berlusconi e l’Ingegnere?

Perché nessuno riusciva a metterli d’accordo. Ci avevano provato Mediobanca, Barclays, Lehman Brothers. Niente da fare. Un giorno a pranzo a casa di Carlo con Corrado Passera e Leonardo Mondadori che stava con Berlusconi arrivati al caffè dissi: «Eppure non mi sembra così difficile trovare la quadra», e me ne andai.

E dopo?

Dopo due ore mi chiama De Benedetti e mi dice: «Senti, perché non ci provi tu. Anche Eugenio (Scalfari, ndr) è d’accordo».

Strano, perché non mi sembra di ricordare che Scalfari l’amasse alla follia.

No, però in questo si faceva influenzare da Giampaolo Pansa che era un mio nemico giurato. Quel Pansa che oggi è diventato, oltre che mio amico, più “fascista” di me. Che mondo strano questo.

E Berlusconi chi lo convinse?

E chi vuole che l’abbia convinto, il solito Letta. Mi chiamò una sera dopo avergli parlato e mi disse che Silvio era entusiasta. Prima di cominciare però volli un mandato scritto dalle parti. A Caracciolo dissi che volevo anche quello di Scalfari.

Però Andreotti la sconsigliò.

Mi ricordo come fosse adesso le sue parole: «Nun t’impiccià che te fai male».

Anche Bettino Craxi era contrario.

Craxi era fuori dal mondo. Mi diceva: teniamo duro perché questi ci mollano Repubblica. Io gli rispondevo: presidente, questi non mollano un caz…

La storia la sappiamo. A questo punto ci starebbe bene un inedito…

Potrei raccontarle dell’incompiuta settimana da Chenot a Merano.

Che c’entra Chenot con Mondadori?

Stia a sentire. Prima di cominciare la mediazione mi prenoto una settimanella rigenerante a Merano. Non faccio in tempo ad arrivare che mi chiama Caracciolo e mi invita a pranzo a Verona dicendo che mi deve consegnare dei documenti.

E lei?

Io gli dico: Carlo, vengo, «ma nu’ famme magnà» se no cosa ci sono venuto a fare da Chenot. Arrivo a Verona e lo trovo che mi aspetta fuori dall’albergo appoggiato a un furgone. Quando mi vede mi dice: qui dentro ci sono tutti i documenti che ti servono.

Le stava dando gli strumenti per lavorare.

Lo guardai e gli dissi: «Carlo, ma mi hai scambiato per una banca d’affari?». Poi tirai fuori un quadernetto giallo, lo aprii e con la penna divisi a metà la pagina: «Di qua metto quello che chiedete voi, di là quello che vuole Berlusconi e poi cominciamo a trattare».

Addio beauty farm.

No, tornai a Merano. Ma non feci neanche in tempo a infilarmi l’accappatoio che mi chiama De Benedetti invitandomi a casa sua a Torino perché aveva urgenza di parlarmi. «Vengo ma non mangio» gli dissi io. E così fu, ma la cosa non finì lì.

E come finì?

Finì che mi venne a prendere una macchina per riportarmi all’aeroporto. Ma appena partiti un’altra auto che veniva in senso contrario ci punta i fari addosso sbarrandoci la strada. Mi sono spaventato a morte, pensavo a un sequestro, tanto che ho messo la mano sulla pistola che allora portavo con me. Invece si avvicina uno e mi dice: «L’avvocato Agnelli la aspetta a colazione domattina alle 6 e mezza». Gli riposi che non avevo l’albergo, e niente con me, neanche lo spazzolino da denti. «Non si preoccupi». E mi accompagnarono alla foresteria della Fiat in corso Unione Sovietica. La mattina dopo l’elicottero dell’Avvocato mi prelevò per portarmi a villa Frescot.

Cosa voleva Agnelli?

Sapere come stava andando. Era curioso come una biscia. Glielo raccontai facendo una frugalissima colazione. C’erano un po’ di marmellatine e delle piccolissime mozzarelle. Pensai fossero le più piccole del mondo, erano le stesse che ho ritrovato poi allo stabilimento di Cassino. Si vede che le comprava in stock.

Ma con De Benedetti non è rimasto in rapporti. Forse perché i giornali del suo gruppo l’hanno sempre crocefissa.

Beh, non pretendevo mi tirassero la volata in campagna elettorale. Se lo avessero fatto non avrei preso i 386mila voti che ho avuto. Però Caracciolo lo scorso marzo fece quell’intervista al Corriere dove parlò bene di me. Una volta mi chiamò e mi disse da perfetto paraculo: «Mi indigna come ti tratta Repubblica».

Oltre che amico Caracciolo è stato anche un benefattore. Si dice che per aiutarla le firmò una fideiussione miliardaria.

Vero. Fu quando le banche volevano portarmi via le cliniche. Avevamo i crediti ma nonostante l’amicizia del camerata Storace la Regione Lazio non mi pagava. Nel 2001 mi firmò una fideiussione da oltre 200 miliardi di vecchie lire.

Generoso…

Un vero amico. Mi ricordo che mi telefonò da Torrecchia. «Sono quattro giorni che ti cerco, ho l’impressione che stai storto». «Storto? Sto perdendo le cliniche, come vuoi che stia...».
Non mi fece neanche fiatare, mi disse di quanto avevo bisogno e firmò .

Da allora siete soci in Eurosanità.

Socio simbolico, entrò con una piccolissima quota solo per affetto.

In realtà a lui delle cliniche non importava nulla, era un animale da giornali 

Andare in ufficio la mattina per lui era una gioia. Per questo non staccava mai, neanche quando era in campagna o all’estero. Mi ricordo che una volta accettò di andare in crociera con De Benedetti su quel rompighiaccio che aveva…

L’Itaska.

Ecco sì. Si era fatto confezionare delle buffe tutine di seta per non sentire il freddo. Ma si ruppe le scatole subito e ritornò a casa affittandosi una barca per girare tra le Pontine.

Dicono che vi facevate dei bei regali.

No, io gli ho regalato una macchina elettrica per girare nella sua tenuta. Adesso mi hanno chiesto se per caso la rivoglio ma non ci penso proprio. Una volta per un mio compleanno mi portò un dolce fatto da Vissani, che era immangiabile. Solo che eravamo tutti imbarazzati. Lui non fece una piega e disse: «Vi esento dal mangiarlo».

Per unanime parere bipartisan al Senato ne ha fatto una bellissima commemorazione 

Spero di sì, visto che alla fine dei miei 12 minuti di discorso tutti, destra e sinistra, mi hanno battuto le mani.

Era suo amico ma alle ultime elezioni ha votato Pd.

Così diceva, ma sono convinto che nel segreto dell’urna votasse Rifondazione. Non amava Veltroni, tanto meno Prodi, ma era un sincero ammiratore di D’Alema e di Bertinotti. E gli piaceva anche chiacchierare con Diliberto.

Il suo grande amico però restava Scalfari.

Sì, anche se a volte gli atteggiamenti di Scalfari gli dispiacevano. Una volta da Fortunato al Pantheon io stavo a un metro da lui, e lui fece finta di non vedermi. Chiamai Carlo e gli dissi: «Dì a quello stron… di Eugenio che se non mi saluta non mi cambia niente, però mi ricordo com’era affettuoso quando abbiamo fatto l’accordo». Dopo due minuti mi chiama Scalfari e si profonde in scuse: «Le giuro che non l’avevo vista».

Come finirà la guerra per l’eredità?

Si metteranno d’accordo perché sono in troppi pretendenti.

Ne verranno fuori altri?

Certo, Carlo è stato con le più belle donne del mondo. E ha esercitato fino all’ultimo non esitando a servirsi dei moderni ritrovati della farmacologia. L’ultima volta che lo hanno ricoverato da me, al Quisisana, i medici della rianimazione mi dissero: «Guardi che questo ha in atto un infarto da Viagra. Cerchi di farsi dire quanto ne ha preso». Mi chinai su di lui che era intubato e gli dissi: «Carlo, fammi segno con la mano, quante pastiglie hai preso?». Le sue dita si sollevarono lentamente. «Tu sei pazzo», gli sussurrai.

Qualcosa che non ha fatto in tempo a dirgli?

Avrei voluto dirgli: «Sono contento che muori nel tuo letto, e che muori contento». Perché, detto tra di noi, si è sempre divertito fino alla fine. E ha sempre vissuto in totale libertà e come più gli piaceva.

*
error: Attenzione: Contenuto protetto da copyright