Come fermammo i terroristi in Fiat. E come non capimmo gli operai

Come è cambiata la provincia di Frosinone con l'arrivo della Fiat. I terroristi in fabbrica. Gli scioperi ed i picchettaggi. E la Marcia dei Quarantamila. La miopia della politica e dei sindacati. La fabbrica di oggi. E gli errori da non ripetere. Raccontati da uno dei protagonisti di quell'epoca: Francesco Giangrande.

Anni di speranza: legati all’arrivo del colosso Fiat in provincia di Frosinone che in pochi anni creerà dodicimila posti di lavoro. Ma anche Anni di Piombo: con gli attentati delle Brigate Rosse, l’assassinio del comandante della vigilanza nello stabilimento di Cassino e le bombe nella centrale di Piedimonte San Germano. Anni caldi: con gli scioperi, i picchettaggi, un mese di stop. Culminato con la Marcia dei Quarantamila che reclamavano il loro diritto a lavorare. Il racconto di Francesco Giangrande, segretario generale della Uil Metalmeccanici, assunto in Fiat nel 1976. E la sua autocritica: “Sbagliammo, lo sciopero fatto in quel modo poteva solo portare alla reazione dei Quarantamila”.

Un racconto ed un album dei ricordi che questa volta avrà bisogno di un supporto. Perché ci sono verità di quegli anni che ancora oggi non si possono raccontare. E Francesco Giangrande puntualmente glissa su quei punti. Su quelle zone d’ombra fanno luce i verbali della Digos e dell’Ucigos, gli uffici della Polizia di Stato che affrontarono con metodi speciali una situazione che era straordinaria.

(Script: Giada Renna)

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La produzione della 126 nello stabilimento Fiat di Cassino
Primo giorno di lavoro: si ricorda la data?

Era l’11 novembre del  1976.

Il luogo?

Fiat, sito di Piedimonte San Germano, officina Verniciatura.

Che mondo era ?

Era il mondo della produzione assoluta, anche se non venduta. Oggi la macchina arriva sulla catena di montaggio quando ha già un proprietario che l’ha comprata. All’epoca invece c’era la produzione, bisognava fare i numeri e poi si parcheggiava la produzione in tutti i piazzali. Un mondo completamente diverso. Perché era il mondo della rivendicazione, era il mondo degli scioperi, era il mondo in cui si rivendicava 100 per ottenere 50.

I ragazzi del 1976 chi erano?

Erano giovani volenterosi, avevamo voglia di lavorare. Lavoravamo ma mettevamo anche in atto tutte le discussioni necessarie per migliorare la nostra condizione. Lo facevamo nei momenti opportuni: nelle pause alla macchinetta del caffè, durante la mezzora di mensa, durante gli scioperi, durante le assemblee. 

Era un mondo sicuramente molto diverso, ma d’altra parte era diverso il perché. Oggi ci sono e ci vogliono competenze completamente opposte. E ci sono perché diversi.

Il metalmezzadro esisteva davvero? 

Le otto ore in fabbrica, in quegli anni, per la grande maggioranza dei dipendenti erano una passeggiata rispetto ai lavori fatti fino a quel momento. E magari anche rispetto ai lavori che tornavano a fare appena finito il turno in fabbrica. 

C’era una parte, tra noi lavoratori, più o meno un terzo, formata da giovani alla prima esperienza lavorativa. Eravamo sostanzialmente nudi in termini d’esperienza di lavoro. E poi c’era la parte restante, che era la maggioranza: proveniva da altri lavori, svolgeva attività aggiuntive, avevano una propria attività, anche di campagna. 

L’ingresso dello stabilimento Fiat
Chi l’ha accolta?

Il primo giorno di lavoro fui consegnato ad un capo reparto, il quale poi mi portò nel reparto, nella officina Verniciatura, affiancato ad un altro lavoratore per iniziare a fare delle attività. Mi guardavo intorno smarrito, non ero me stesso. Colpiva la dimensione immensa. E poi la quantità delle persone che lavoravano, la quantità delle macchine che si producevano.

ADDENDUM – I verbali riservati della vigilanza interna raccontano che in quel 1976 a Cassino Plant c’era un tasso di produttività estremamente basso. Molti dei ragazzi appena entrati in fabbrica venivano accolti da alcuni personaggi ben precisi che mettevano subito in chiaro la situazione: “Guagliù, nun v’ mettete ‘n cap’ r’faticà: quà nun s’fatica. Mettetev’ a cà via e leggetev’ gliù giurnale”. Uno dei fronti più caldi era la Verniciatura.

C’erano circa 12mila addetti in quel periodo…

In quel periodo non ancora, però poi nel 1978 si arrivò a circa 12000 addetti, sì.

Quel 1976 appartiene ad un’epoca particolare del nostro Paese: gli anni di piombo. E lo stabilimento Fiat di Piedimonte San Germano ad un certo punto diventa una delle linee della frontiera: c’è un attentato in cui viene assassinato il maggiore Carmine De Rosa, responsabile della vigilanza; c’è un attentato alla centrale termica; un altro agguato a quelli che all’epoca erano i primi centri di elaborazione dati. Come vivevano gli operai quel clima degli anni di piombo?

Ci fu anche il ferimento di un capo officina, del Montaggio: all’interno del recinto dello stesso sito produttivo mentre prendeva la propria vettura per rientrare a casa. Erano anni difficili e si conviveva all’interno di quel grandissimo Consiglio di Fabbrica composto da circa 180 rappresentanti sindacali. Giornalmente ci confrontavamo. Emergeva, sempre di più, la necessità di rivendicare, di arrivare allo sciopero. Lo sciopero era un obiettivo.

ADDENDUM – I verbali di polizia dell’epoca parlano di infiltrazioni brigatiste accertate all’interno dello stabilimento di Cassino. Se ne ha la prova il 4 gennaio 1978 quando l’ex maggiore dei carabinieri Carmine De Rosa (capo dei servizi di sicurezza della Fiat di Piedimonte San Germano) fu assassinato mentre era al volante della sua auto e stava raggiungendo lo stabilimento. L’attentato fu rivendicato dal gruppo Operai armati per il comunismo. I processi accerteranno che il fatto era stato organizzato e compiuto da esponenti della sinistra eversiva, con complicità all’intero della fabbrica. Uno di essi verrà arrestato in Francia assieme a militanti delle Brigate Rosse.

Il giorno dell’attentato è proprio Francesco Giangrande con altri sindacalisti a trovare negli spogliatoi i volantini che rivendivano l’omicidio. Pensano ad una provocazione e ad un tentativo per incendiare gli animi. Fanno sparire qul materiale: solo dopo scopriranno che il maggiore De Rosa è stato assassinato e riferiranno a quel punto che già all’alba i volantini erano dentro la fabbrica quindi qualcuno, complice del commando, li aveva lasciati all’orario prestabilito.

Il Partito Comunista ed il Partito Socialista imposero una netta distanza tra il sindacato e i brigatisti…

Io devo dire che all’epoca non militavo in nessun Partito, ma era noto a tutti che nella UIL militavano Socialisti, Socialdemocratici, Repubblicani. Come era noto anche che nella Fiom-Cgil militavano i Comunisti e qualche estremista della sinistra. E nella Fim Cisl c’erano i democristiani. L’assurdo era che lì c’erano anche coloro che militavano in Democrazia Proletaria, quindi i due opposti. 

Vi era un contesto politico variegato con il quale il confronto diventava sempre più difficoltoso, sempre più difficile. E quindi all’interno di quel confronto, non giornalmente ma saltuariamente, dovevamo confrontarci anche con chi poi probabilmente aveva la necessità di andare oltre i limiti e oltre ciò che la legge imponeva di non fare. 

ADDENDUM – Rapporti riservati di Polizia dicono che all’epoca i brigatisti tentavano di fare proseliti tra i lavoratori più giovani, agganciandoli alla fermata delle corriere quando arrivavano in fabbrica per l’inizio del turno. Alcune note dell’epoca segnalano davanti allo stabilimento la presenza di Marco Barbone, all’epoca leader dell’organizzazione Brigata XXVIII marzo. Altre Riservate ipotizzano che Barbone abbia tenuto riunioni organizzative con operai di Cassino nella zona del rione Colosseo. Nessuna operazione di servizio però ha cristallizzato quegli incontri.

Fiat, la catena di montaggio della 131
Ma il sindacato come riuscì ad isolare i terroristi? Perché di fatto il terrorismo, il brigatismo non riuscì a permeare la società.

FIM, FIOM e UILM erano e sono la storia del movimento operaio. Riuscimmo a condividere, in maniera netta e unitaria, tutte le condizioni affinché ci fosse un isolamento forte nei confronti di coloro che rappresentavano il danno. In quella circostanza iniziai a militare nel Partito Socialista. Attraverso i Partiti riuscivamo… insieme, attraverso il dialogo, attraverso la discussione. Pensi che anche la sera alle 22 c’erano riunioni di partito per creare, attraverso la condivisione, la strada, il percorso prioritario da percorrere per arginare il fenomeno. E ci riuscimmo. 

ADDENDUM – L’argine costruto dal Sindacato non viene alzato in collaborazione con le forze di polizia. È un’azione autonoma e distinta, basata sulla non collaborazione con il terrorismo e la non delazione con la polizia. Una sorta di tentativo di sterilizzazione della fabbrica. I carabinieri e la polizia vedono con sospetto l’azione dei sindacati. Una mattina, poco prima delle 5, tutte le abitazioni dei rappresentanti del Consiglio di Fabbrica dello stabilimento di Cassino subiscono la perquisizione senza troppi complimenti. Manu militari, vengono sventrati materassi, svuotati armadi e cassetti. Per cercare armi, documenti e qualsiasi prova di eventuali collegamenti con il terrorismo. Nulla viene trovato.

Lo percepivate il pericolo? Perché anche voi ad un certo punto eravate diventati dei bersagli: vi accusavano di essere i “servi dei padroni”, il “sindacato venduto”.

Beh… questo lo fanno ancora oggi. Io già da allora ero il “servo del padrone”. Perché ero un moderato, perché ero un lavoratore – sindacalista. Venivo considerato, allora, il “servo del padrone” perché moderato e perché incisivo nelle discussioni affinché quelle discussioni potessero portare ad un risultato vincente per le lavoratrici e per i lavoratori.

ADDENDUM – Segnalazioni riservate della vigilanza Fiat all’epoca parlano di frasi minacciose rivolte ad alcuni sindacalisti non radicalizzati e soprattutto, contrari alla radicalizzazione dello scontro. Tra i sindacalisti oggetto di queste attenzioni e sollecitazioni risulta esserci anche Francesco Giangrande.

Il Consiglio di Fabbrica
Siamo al confine tra gli anni Settanta e Ottanta: ad un certo punto, dopo avere isolato il terrorismo, comincia la stagione degli scioperi. Perché cambia completamente la condizione mondiale nella quale Fiat si sta muovendo. Ci sono gli scioperi, i picchettaggi per impedire di entrare. Ci sono le persone che scavalcano pur di entrare, i crumiri che entrano. Mi racconta quegli anni?

Sono stati gli anni più duri del sindacato perché avevamo, e continuiamo ad avere, tutti insieme, una visione sempre meno rispettosa del tempo in cui vivevamo… Mi spiego: siamo stati poco rispettosi nei confronti di quelle che erano le volontà  delle lavoratrici e dei lavoratori del sito produttivo. Non solo. Fummo poco rispettosi in tutto il gruppo che allora era la Fiat. E questo andò a determinare la sconfitta del sindacato.

Perché ci fu la famosa marcia dei 40mila, cioè la contro-marcia di quelli che dicevano: “Noi vogliamo lavorare!”. In pratica scioperarono contro lo sciopero.

Marcia che anche qui a Cassino subimmo, dopo circa un mese di picchettaggi. Però quello era il sistema…Allora noi accusavamo quelle lavoratrici e quei lavoratori, seppure per la grande maggioranza impiegati, di essere “i servi di Agnelli”. Però, di fatto, tra di loro vi era gente convinta di dover entrare a lavoro per portare lo stipendio a casa. Volevano creare condizioni diverse da quelle che il sindacato stava mettendo in campo. Poi intervenne la politica. Politica che, sebbene allora non fosse miope, in quella circostanza lo fu assolutamente.

Fu un errore arrivare a quella conseguenza così estrema dal punto di vista di politica sindacale? 

Sì. E lo dico pur venendo dal fronte che meno voleva arrivare a quel punto di rottura rappresentato dalla Marcia dei Quarantamila. Ricordiamoci che erano gli anni in cui avevamo come Segretario Generale Giorgio Benvenuto, il quale, in una grande manifestazione a San Giovanni, ricevette le monetine anche dai militanti della UILM. Immaginate la durezza dei metalmeccanici in quegli anni. Ci contestavano il mancato confronto. 

Francesco Giangrande (Foto: Roberto Vettese)
Ma cosa chiedevano gli operai in quegli anni? Perché protestavano?

Si protestava per le cose più banali… Per il ‘potere agli operai’. Era una questione soprattutto ideologica. Si protestava anche per chiedere di migliorare le condizioni di lavoro in fabbrica. Però si riteneva che quelle migliori condizioni dovevano essere determinate da quella ideologia del Potete agli Operai. Che da sempre ho ritenuto folle: infatti è stata sconfitta. 

Siamo arrivati agli anni ’80. La marcia dei 40mila… Lei dice: “Sbagliammo ad arrivare a quel punto di rottura”, fu la sconfitta di un certo modo di fare sindacato. Poi però arriva la grande crisi energetica degli anni ’80, comincia una crisi anche per il comparto automobilistico. Di fatto, cambia anche il modo di produrre, cambia il modo di fare fabbrica. Lei quando vede questo cambiamento e anche una diversa impostazione all’interno dello stabilimento?

Nell’anno 1980 ci fu un’eccedenza strutturale di circa 20mila lavoratori e lavoratrici. Cassino fu colpita con, se ricordo bene, 2700 o circa 3000 lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore. Che poi gradualmente, anche con l’incentivazione, decisero di licenziarsi. Era la prima volta che si arrivava ad un provvedimento di cassa integrazione così massiccio in Italia e sul territorio. Il mondo stava cambiando. E noi purtroppo non riuscimmo a comprendere il cambiamento.

Cambiamento nel modo di produrre, non servivano più tutte quelle persone…

Non servivano più tutte quelle persone sicuramente, ma c’era un cambiamento proprio politico nel Paese Italia. E lo dovemmo affrontare purtroppo con questi sacrifici e difficoltà.

Cambiò anche il sindacato?

Sì. Ma non si può negare che anche noi, seppure nella nostra moderazione, abbiamo avuto le nostre responsabilità. Nel non avere avuto la forza di trasmettere agli altri che effettivamente era in atto un cambiamento sociale, un cambiamento nel lavorare, un cambiamento nella e della fabbrica. Un cambiamento complessivo, anche a livello politico. Perché in quegli anni, negli anni ’80, anche i Partiti dovevano comprendere che un cambiamento bisognava metterlo in campo.

La catena di montaggio della 126
Lei a quale macchina è più legato tra quelle che ha visto nascere a Cassino?

Sicuramente alla Fiat 126 perché quando sono arrivato si produceva quella. È stata la prima macchina sulla quale ho lavorato.

Un ragazzo che nel ’76 cominciava a lavorare che prospettiva aveva?

Sicuramente prospettive diverse e migliori da quelle di oggi. Perché nel ’76 lo stipendio girava intorno alle 120mila lire e negli anni ’70, nel nostro territorio, era uno stipendio sostanzioso. Un dipendente pubblico, ad esempio, percepiva 80mila lire al mese.

Cosa pensa quando lo vede al primo giorno di lavoro un neo assunto?

Questi giovani hanno sicuramente una marcia in più. Perché scolarizzati. All’interno del sito produttivo Stellantis molti laureati fanno gli operai e quindi non sono stati valorizzati dalla stessa azienda. Su questo abbiamo lavorato sindacalmente affinché ci fossero anche funzionari e dirigenti del territorio. 

Francesco Giangrande (Foto: Roberto Vettese)
Siamo ad un’altra fase di passaggio, Giangrande. Adesso passiamo dal motore che abbiamo sempre visto al motore elettrico: non servono gli iniettori, non servono i pistoni, non serve gran parte di quello che invece è stata la macchina sulla quale noi siamo cresciuti. Ancora una volta ci saranno delle eccedenze.

Sì, si calcola circa il 30% per quanto riguarda Stellantis. Per quanto riguarda l’indotto è un qualcosa di molto più preoccupante di quanto lo può essere per i dipendenti Stellantis.

Parlando della fine degli anni ’70 lei mi ha detto: “Non capimmo, non capimmo che c’era un cambiamento e quindi arrivammo tardi e soprattutto arrivammo in maniera sbagliata al confronto su quelle eccedenze”. Oggi il sindacato lo ha capito che siamo di fronte ad un’epoca simile a quella?

Lo abbiamo capito già da tempo. Però è chiaro che in una fase come questa, di transizione ecologica, serviva non solo il sindacato,  serviva anche confrontarsi con il governo. Non solo il governo di oggi, ma anche con i governi del passato che forse non hanno creduto loro stessi in quello che doveva essere il cambiamento. Perché, guardi, l’automobile in Italia è la storia. Non è la storia della famiglia Agnelli, ma è la storia degli italiani. 

E quindi pensare che questa trasformazione mettesse fortemente in difficoltà qualche anno fa FCA e qualche anno ancora prima FIAT era e doveva essere una preoccupazione non solo del sindacato. Non solo delle lavoratrici e dei lavoratori. Doveva essere una preoccupazione anche delle istituzioni locali, della Regione. E delle Regioni in cui gli stabilimenti Stellantis sono ancora attivi, e quindi del governo italiano.