La cultura del No che paralizza il Paese. E pure la provincia (di C. Trento)

L'Italia è un Paese costruito negli anni 60, abbandonato dagli anni 90, appena si prova a realizzare un’opera parte il fuoco incrociato della “minoranza urlante”. Perché la maggioranza rimane silenziosa. Gli esempi in provincia di Frosinone.

Corrado Trento

Ciociaria Editoriale Oggi

La tragedia di Genova impone mille riflessioni. Una su tutte però: la cultura del “no”ha indebolito le fondamenta del Paese.

Lo ha sintetizzato benissimo Antonio Polito nell’editoriale del Corriere della Sera del 15 agosto scorso:

«L’Italia è un Paese costruito negli anni 60, abbandonato dagli anni 90, che ha cominciato a venir giù da dieci anni. E la ragione è che abbiamo smesso di credere nel progresso. Tutto ci sembra più importante: l’ambiente, l’austerità, i comitati dei cittadini, la Corte dei conti, la lotta agli sperperi e alla corruzione. C’è sempre una buona ragione per non fare nulla. Di questo cedimento strutturale è una triste testimonianza la polemica politica che si è accesa mentre ancora si tiravano fuori i morti».

È esattamente così, a livello nazionale ma pure locale: non appena si profila la possibilità di realizzare un’opera, pubblica o privata che sia, parte il fuoco incrociato della “minoranza urlante”. Che ovviamente approfitta della mancanza di coraggio della “maggioranza silenziosa”.

Con il risultato che, oltre a bloccare sul nascere molte cose, si rimette in discussione quel poco chi si è riusciti ad avviare. Della Tav Torino-Lione si è cominciato a parlare nel 1994. Del Tap (il gasdotto transadriatico) si discute dal 2003. Della Gronda di Genova si dibatte dal 1984. Per non parlare di locuzioni ormai consegnate al mito, come il ponte sullo Stretto o l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria.

Pure in provincia di Frosinone non mancano gli esempi di opere rimaste pagine mai scritte del libro dei sogni. A cominciare dall’Interporto: 30 anni di annunci. Poi nulla. Lo scambio gomma-rotaia avrebbe dovuto far volare l’economia locale. Quindi venne fuori l’idea di realizzare uno scalo aeroportuale civile a Frosinone. A decollare, per anni, sono state soltanto le polemiche, che hanno scandito i ritmi di diverse campagne elettorali. Alla fine nulla.

Qualche settimana fa, però, in un convegno, il direttore generale dell’Enac ha parlato della necessità di nuove infrastrutture aeroportuali. E, con riferimento allo scalo frusinate, ha spiegato che «si era nel giusto, bisognerebbe riprendere quell’esperienza». (leggi qui La rivincita di Scalia: Enac «L’aeroporto a Frosinone si poteva fare, iniziativa da riprendere»)

 

La paura di investire e i ritardi

In qualunque settore predomina la paura di fare. Senza considerare le pastoie burocratiche che ritardano di decenni opere fondamentali.

Quanto tempo è passato per il completamento della Ferentino-Frosinone-Sora? E quanto ne passerà ancora per il collegamento di questa arteria con la Sora-Avezzano? Quando si comincerà a bonificare la Valle del Sacco? Nell’anagrafe del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (la notizia è stata pubblicata proprio su Ciociaria Oggi qualche giorno fa) figurano dodici opere incompiute della provincia di Frosinone, per un totale di 11.469.562 euro. (leggi qui Dodici incompiute, 11 milioni fermi in Ciociaria)

Ma si tratta soltanto della punta di un iceberg enorme. Naturalmente su questo punto specifico bisogna anche fare i conti con finanziamenti e risorse sempre più limitate. “Sono finiti i soldi”: è questa la frase che ci sentiamo ripetere in ogni occasione, con tanto di ragionamenti sulla necessità di non sforare i parametri europei, di tenere basso lo spread e tutto il resto.

Nel frattempo, però, nessuno decide nulla. E diventa un’impresa titanica perfino assicurare la normale manutenzione delle strade e delle scuole. Quando su un tema come la sicurezza sarebbe necessario investire, investire, investire.

 

Il politicamente corretto è sepolto

Passando sul fronte della politica, la sensazione forte, anche e soprattutto in Ciociaria, è che Pd e Forza Italia non abbiano ancora capito la lezione del 4 marzo.

I vecchi schemi, anche comunicazionali, non “tirano”più: le coalizioni larghe, i riti delle consultazioni, le sacrestie di partito, le prese di posizioni paludate, i ritmi bizantini, il cerchiobottismo. Perfino gli accordi trasversali, o inciuci che dir si voglia.

Cinque Stelle e Lega hanno vinto non soltanto parlando in maniera diversa (sostanzialmente non filtrata), ma ponendo l’attenzione su temi come la sicurezza, la trasparenza, la lotta agli sprechi, le tasse, la qualità della vita.

Ora, il discorso al governo è completamente diverso e in questi mesi hanno predominato gli slogan e il clima da perenne campagna elettorale. Ma il punto è che tutto questo non si può contrastare con schemi superati, vecchi, bocciati dagli elettori.

Occorre il coraggio di mettere in discussione tutto e riprendere a fare politica sul serio, non avendo paura di sfidare l’impopolarità. Servono “discese ardite e risalite”, per dirla con Lucio Battisti. Il pilota automatico e la velocità di crociera non bastano.

Lo sa bene il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti: se davvero vorrà provare a scalare il Pd non avrà alternative allo scontro politico con Matteo Renzi.

È il momento del coraggio anche in Forza Italia: cambiare tutto per non cambiare niente non sposterà di una virgola l’attuale quadro politico. Antonio Tajani ne è perfettamente consapevole. Ma quale raggio di azione avrà da Silvio Berlusconi?

 

Le provinciali importanti per addetti ai lavori

Le elezioni provinciali saranno importanti per il quadro politico, ma riguardano gli addetti ai lavori. Perché la riforma Delrio non è stata superata, nonostante il chiaro risultato del referendum del dicembre 2016.

Voteranno sindaci e consiglieri attraverso un meccanismo “ponderato” che attribuisce maggiore peso al consenso espresso dagli amministratori dei Comuni più grandi.

Eppure, sia il centrosinistra che il centrodestra sono già al lavoro, tra strategie, veti, manovre trasversali (spesso inconfessabili).

Perché la vera posta in gioco è quella degli equilibri nelle coalizioni e nei partiti. Il motivo è semplice: da questo quadro deriveranno le gerarchie del prossimo futuro, importanti per definire le candidature che contano. Cioè quelle alle europee, alla Camera, al Senato, alla Regione, perfino nei Comuni.

Anche in questo caso, però, la classe dirigente fatica a prendere atto che il mondo reale è cambiato. Come dimostra il fatto che ogni volta che vota il popolo sovrano si registrano veri e propri sconvolgimenti.

La rabbia della gente non è rivolta contro lo Stato, del quale fanno parte istituzioni e organismi vari, dalle forze dell’ordine alla macchina dei soccorsi. La rabbia ha un solo destinatario: la politica.

 

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