Dieci marzo, il giorno che ci svegliammo con la paura di morire

All'alba del 10 marzo 2020 ci svegliammo diversi. Conte ci aveva detto la sera prima che saremmo dovuti rimanere chiusi in casa. 'Per pochi giorni' e invece passò più di un anno. Solo allora capimmo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il 9 marzo del 2020 ognuno di noi era in un posto più o meno banale e definito. Posto segnato dalle abitudini di milioni di vite scandite dalla pigra esistenza in un Occidente tutto sommato bonario, con un’Italia mediamente accovacciata nella broda dei suoi soliti guai. Certo, quella era la pigrizia falsa di esistenze che già allora erano più che tormentate da problemi, noie e casini grossi. Ma ognuno di noi percepiva che quei guai erano esattamente incasellati nel novero delle cose che conoscevamo.

Era un mondo ordinato, quello fino al 9 marzo 2020. Bollette, figli, lavoro da fare o da cercare, dubbi, corna, lutti e salute: erano tutte caselle di una vita razionale che al caos concedeva solo piccole deroghe. La cronaca ce ne dava menzione e quando quelle deroghe dalla normalità erano nostre ci affrettavamo a sanarle, superando e dimenticando i momentacci o facendoci segnare da essi, ma non fermare. L’alba del 10 marzo ci colse nuovi, ma così nuovi e così nudi che non sapevamo cosa fare delle nostre esistenze pur sapendo cosa andava fatto al momento: qualcosa, semplicemente qualcosa per prendere le misure ad una storia capovolta.

La svolta epocale di marzo

Giuseppe Conte

Quando in Italia il Covid balzò in avanti e da sfondo cupo della cronaca lontana passò scenario delle nostre vite noi ce ne accorgemmo subito, che era successo qualcosa di epocale. Ce lo aveva detto Giuseppe Conte la sera prima, comparendo in televisione e dicendo cose enormi, cose che solo la scialba memoria della Seconda Guerra Mondiale poteva riconsegnarci in assaggio emotivo. Ma coi racconti dei nonni o con le pagine dei libri che usavamo come divisorio per le bomboniere.

Poi arrivò il sapore vero di quello che stava accadendo, come quando in treno fiuti da lontano un bagno sporco e all’improvviso maledizione ci devi andare. Allora capimmo. Non per gradi, capimmo tutto e subito. E la valanga ci travolse. Non sapevamo di cosa fosse fatta ma vedemmo che era enorme e rombante. Coprifuoco, Italia chiusa in ogni sua manifestazione sociale, spostamenti consentiti solo per tre ragioni inderogabili e poi quel virus. Un virus che dalla Cina era tracimato nel mondo, un virus che ammazzava ed annegava il respiro. Che non aveva cure e che correva perfino più veloce della morte che portava.

Il cambio del vocabolario

Foto: Carlo Lannutti © Imagoeconomica

Cambiò il nostro glossario e fu terribile: contagio, effetto drop, goccioline come vettore, incubazione, sintomi, decorso, terapia intensiva, fame d’aria, intubati, decesso. La saliva diventò la nemesi e l’aria che la trasportava iniziammo a vederla come il fiato dell’Inferno che alla fine era arrivato. Fino a 36 ore prima ad un italiano medio se gli chiedevi cosa fosse un virologo avrebbe risposto che era un medico abbastanza bravo per studiare cose strane ma non bravo abbastanza per cimentarsi con un’ulcera, uno che aveva scelto di seppellirsi fra le provette a studiare perché impazzissero le vacche, poracce loro. La tosse passò di grado e da motivo per stizzirsi in ufficio e chiedere una caramella diventò il Verbo di Satana. L’Amuchina, maledetta lei, divenne Manna dal Cielo.

Non toccammo più nulla e nessuno e iniziammo a vedere i virologi come Nuovi Oracoli. Oh si, loro ci avevano preso, a studiare le vacche impazzite. Ma noi uomini no, noi al massimo facevamo i conti con l’influenza stagionale ma di essa percepivamo solo l’ingombrante seccatura della febbrona post natalizia che ti immagoniva ancor di più l’anima dopo le bisbocce festive. La verità è che non solo non erano pronti i governi, non eravamo pronti noi. Mentre iniziavamo a guardare i nostri genitori con l’inquietudine diaccia di chi scopre che un vecchio si ammala prima e muore di più quella mattina del 10 marzo ci vestimmo tutti.

E con i calzini spaiati corremmo come scarafaggi impazziti nei supermarket. Fare le scorte, comprare tutto, ma proprio tutto perché adesso tutto può succedere “e dio maledica i cinesi”. E di Giuseppe Conte e del governo iniziamo a soppesare l’affidabilità come mai prima perché era la prima volta che chi ci guidava ci diceva esattamente quello che potevamo o non potevamo fare.

Il sapore della libertà perduta

Foto © Carlo Lannutti / Imagoeconomica

Non ci eravamo abituati e per noi libertà e democrazia erano cose coincidenti, cose solide che figurati se potevano essere sconfitte e messe in frigo da un “coso” che neanche sapevamo come fosse fatto. Arrivò il pericolo, germinò la paura di morire e non fummo più gli stessi. Addio regole. Tornammo tutti dai market con la braccia gonfie e venose per decine di buste in cui avevamo messo ogni cosa.

Ci chiudemmo la porta alle spalle e prima di riporre le scorte tornammo tutti indietro. E si, ci assicurammo che la porta fosse davvero chiusa bene, la prememmo forte nello stipite per la prima di altre diecimila volte. Poi, prendendo il telefono per chiamare chi era stato separato da noi per legge e cupa necessità e per un tempo che non sapevamo, ci affacciammo alla finestra e sbirciammo le nostre piazze ciarliere. E allora capimmo davvero tutto.

Erano vuote. E c’era silenzio.