Cosa c'è dietro alla resurrezione di Renzi. Ed all'assedio mosso a Palazzo Chigi. Quel sottile filo che conduce fino in Usa. Dal nuovo inquilino della Casa Bianca. La foto che spiega. Cosa cambia per Conte. E cosa per Zingaretti
C’è un sottile filo spinato ad unire le vicende di questi giorni che hanno come protagonisti Matteo Renzi e Giuseppe Conte. Un filo lungo che arriva fino in America, negli Stati Uniti. Perché non è un caso che l’assedio all’inquilino di Palazzo Chigi sia cominciato nei giorni immediatamente successivi al risultato elettorale che ha issato Joe Biden fino alla Casa Bianca.
Nei secondi successivi all’annuncio fatto da Sky Tg24 sulla vittoria del candidato Democratico, sui social dell’uomo di Rignano è apparsa una foto che li ritrae assieme. Tutti gli osservatori di cose estere conoscono il feeling sempre esistito tra Renzi e l’ex presidente Usa Barack Obama: non è fatto solo di parallelismi politici, c’è una reciproca stima umana personale.
Quando veniva scatta quella foto, Joe Biden era il vice del Presidente Obama.
Il nuovo assetto occidentale
Le elezioni con cui gli americani hanno mandato a casa il peronista dal ciuffo cotonato Donald Trump, in un colpo solo hanno cambiato l’asse politico a stelle e strisce. Finiscono i soffitta i sovranisti mondiali, tramontano fenomeni come Steve Bannon e la sua università mondiale avviata a Casamari. Tramontano le glorie di carta velina dei vari Giuseppi nel mondo.
Non per opportunità politica. C’è un fatto grave e considerato ostile dalla nuova amministrazione che si prepara a governare gli Usa. Che su questo la pensa esattamente come Trump e la sua compagnia di giro con le valigie in mano.
L’abbiamo fatta fuori dal vaso: tanta e dove proprio non si doveva. Il nostro coinvolgimento nel caso Russiagate ha rinfocolato la nostra immagine internazionale di alleati inaffidabili, cialtroni arruffoni. Un’immagine che avevamo ammantato di dignità con Andreotti agli Esteri e Moro alla Presidenza: erano gli anni in cui avevamo la moglie americana e l’amante araba. Ma faceva comodo a tutti sullo scenario occidentale e proprio questa nostra capacità di dialogo e di equilibrio ci aveva reso strategici. Quando non lo siamo stati più è diventato Israele il solo interlocutore affidabile degli Usa affacciato sul Mediterraneo.
La forzatura di Giuseppi
Cosa c’entra Russiagate con l’Italia e con la cronaca politica di questi giorni? Il 15 agosto 2019 Giuseppe Conte autorizza il capo servizi a riferire al ministro della Giustizia Usa Pelham Barr ciò che l’Italia sa su presunti complotti elettorali che vedono coinvolto Trump. È un fatto anomalo, irrituale e grave: il capo dei servizi parla con il suo omologo, non riferisce ad un’autorità politica straniera; soprattutto non lo fa all’insaputa del parlamento italiano. Cosa c’era di così grave da sapere?
Il legame di Giuseppi Conte con Donald Trump è stato tale da indurlo a commettere quella forzatura. E questo è già sufficiente per renderlo sospetto alla nuova Amministrazione. Un sospetto aumentato dalla sua pervicace ostinazione nel voler mantenere la delega sui Servizi. In una parola sola, per il nuovo che avanza a Washington Conte è inaffidabile: non lo è fino a quando non mette in chiaro anche con i nuovi cosa c’era da dire a Barr sul Russiagate.
La sensibilità di Matteo
Matteo Renzi è l’interlocutore con la giusta sensibilità per comprendere al volo i nuovi inquilini della Casa Bianca. E nemmeno un secondo ha perso per iniziare l’assedio. Lasciando aperte varie vie d’uscita: ma tutte passano per il ridimensionamento di Giuseppi se non per la sua defenestrazione. Ridimensionamento significa riscrittura immediata dei progetti per il Recovery Fund e altrettanto immediata cessione della delega ai Servizi. Cioè, fine del premierato anomalo e ritorno alla politica.
A quel punto starebbe a Renzi decidere il seguito: tenere Conte a palazzo Chigi ma con un ruolo di rappresentanza (come nel Conte 1) oppure togliergli la fiducia e benedire un governo istituzionale.
Le conseguenze sul Lazio
Ma un dato sarebbe certo: tertium non datur. Cioè, niente elezioni anticipate. Per ora ai player sta bene così. A nessuno interessa cambiare gli equilibri di un Parlamento ormai per molti diventato una specie di Reddito di Cittadinanza. Gente dallo spessore politico molto dubbio e dal profilo amministrativo evanescente. Arrivata a Montecitorio ed a Palazzo Madama grazie ad un meccanismo privo d’ogni genere di selezione.
Le elezioni anticipate obbligherebbero Nicola Zingaretti a lasciare la Regione Lazio. Dalla quale sta dimostrando che oltre alla capacità politica c’è anche la stoffa amministrativa: seconda regione in Italia per nuove Partite Iva prima della pandemia, tra le prime per crescita industriale (sempre prima del Covid), gestione della vaccinazione da prendere ad esempio dopo avere fronteggiato in maniera abile le ondate di pandemia.
Per questo ha detto no ad una crisi di Governo dagli sviluppi imprevedibili. Sottolineando l’urgenza di programmi seri e credibili per accedere alle risorse del Recovery Plan. Che non torneranno più per l’Italia. Per questo da mesi Nicola Zingaretti spinge per un rilancio vero dell’azione dell’esecutivo. (Leggi qui I protagonisti del giorno. Top e Flop del 5 gennaio 2021)
A muoversi, potrebbe pure. Ma il 2023 è la data segnata sul calendario da Zingaretti per presentarsi alle urne. Prima ci sono due anni di ricostruzione del Paese, soprattutto attraverso i fondi del Mes e del recovery. E con un Conte ridimensionato.