Il dilemma di Biagio: «Se Facebook è Dio, chi è Zuckerberg?»

Biagio Cacciola

Politologo e Opinionista

ANGELA BUBBA

per CHE FUTURO

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Prima della venuta di Cristo forse solo Alessandro Magno riuscì a unificare così tanti Paesi e culture all’insegna di un grande progetto di comunicazione. In poco più di dieci anni, a cavallo del fedele Bucefalo e con nel cuore l’illuminante educazione curata da Aristotele, tradotta in un temperamento fatto tutto di diplomazia, lungimiranza e coraggio molto più che straordinari, l’enfant prodige della Macedonia riuscì a conquistare l’intero impero persiano. Rigettando l’ipotesi della società greca come organismo, e non solo artistico, superiore a qualsiasi altro, Alessandro puntò piuttosto a valorizzare differenti tradizioni, differenti sistemi organizzativi che invece di scontrarsi avrebbero potuto cooperare. Le parole chiave erano dialogo, collaborazione, scambio, ovvero gli stessi principi che fin dalle origini mossero il Cristianesimo. Non chiusura ma apertura, non reclusione ma collaborazione, non scontro preventivo ma al contrario incontro benefico e produttivo.

 

«Tutte nozioni che si stanno attenuando», mi ha detto al telefono Biagio Cacciola, docente di filosofia ed esperto di storia delle religioni. «Viviamo in un mondo sempre più scristianizzato, in un vero e proprio vuoto laicista che un cristiano o altro tipo di credente, o anche solo potenziale credente, non sa più sviluppare all’interno del concetto di comunità. Nel caso più specifico dei cattolici, il compito che prima era svolto dalla Chiesa ora è invece Facebook a sostenerlo». E non è un discorso peregrino questo, o poco valido, se già Marshall McLuhan profetizzò anni fa che le tecnologie e i nuovi media avrebbero sostituito alcuni concetti chiave come l’identità e la religione.

 

Oggi più che mai, quindi, dovremmo fare i conti con questo magnificente universo parallelo, questa agorà infinita quanto inconsistente, e soprattutto paradossale. «Se infatti nella vita reale, per paura noia o viltà, non reagiamo a determinate situazioni» continua Cacciola, «soprattutto su questo social ci comportiamo peggio di Catone il censore. Se per strada c’è indifferenza, sulle varie bacheche trionfa il cinismo; se non abbiamo rapporti umani autentici per fortuna ci sono gli “amici” di Facebook, che spesso sono tutto tranne che veri amici, a correre, si fa per dire, in nostro aiuto. Ma si tratta di una densità relazionale fortemente illusoria, e se da un lato ci connette potenzialmente a tutti dall’altro ci disconnette profondamente da noi stessi».

 

La frattura fra l’uomo il concetto di divino, è chiaro, si sta via via allargando. C’è qualcosa che si sta spezzando o che si è già spezzato, e che io non immagino affatto come una piccola crepa. Anzi. Vedo un organo immenso e quasi totalmente in frantumi, un’incredibile faglia di sant’Andrea responsabile di aver attraversato almeno tre fasi. Dalla biblica amicizia fra Dio e l’uomo si è passati man mano all’Illuminismo, corrente che per lo meno proteggeva strenuamente un’amicizia fra uomo e uomo. Ora non abbiamo più nemmeno questo. Abbiamo in generale un’amicizia fra l’uomo e i suoi contatti virtuali, fra l’uomo e il non–uomo, fra l’uomo nella sua fragilità e l’uomo nella sua estremizzazione, che potrebbe essere vista come un ritrovato stato di ferinità. L’uomo che non perde tempo a comprendere, che non ascolta, che scrive proclami, quasi nuove leggi mosaiche, più che opinioni: Facebook è fatto soprattutto di questo.

 

Il motivo? Sul numero uno dei social network non c’è spazio per le moderazioni. Si deve scegliere una parte da recitare e una posizione da portare avanti. Si deve seguire una linea strategica, proprio come in guerra. Si devono postare condanne e sanzioni e difficilmente si ammettano perdoni.

 

Se l’identità, riprendendo McLuan, è davvero annullata nel concreto del quotidiano, di sicuro sull’indefinito del virtuale fiorisce in innumerevoli esibizioni dell’ego. Ognuno in cerca della propria quantità di (auto)gratificazione, del proprio tot di mipiace, del fatto di essere più o meno un influencer. Ognuno che scalpita per mettersi in mostra, come un robot che elemosina forse non sempre inconsciamente l’attenzione altrui; ognuno che tenta di diventare un piccolo dio.

 

E tuttavia qualsiasi vera o presunta entità superiore, qualsiasi creatura che voglia essere, o credere di essere, al di sopra della media terrestre, più per contenuti piuttosto che per forma, deve pur sempre rispondere a una matrice principale. E sarebbe Facebook nel nostro caso. Vale a dire un ingranaggio, per non dire “essere”, sempre più reputato come intoccabile, blindato in un quartier generale che assume quasi sfumature mistiche, che ha perfino inviato il suo figlio prediletto, non Gesù di Nazareth bensì Mark Zuckerberg, a dirci come stanno davvero le cose.

 

In un articolo del 2011, Piergiorgio Odifreddi disse che lo studente di Harvard era ormai diventato più famoso di Gesù. E oltre a richiamare la famosa battuta di John Lennon, parlò pure delle origini ebree del principino della Silicon Valley, e di quanto la sua intuizione aveva fatto molto di più di quello che il Cristianesimo, antico e moderno, era riuscito a fare in secoli e secoli di evangelizzazione. «In sette anni esatti, dalla sua consacrazione nel febbraio 2004, ha già conquistato seicento milioni di utenti: cioè, più di metà dei cattolici che la Chiesa può vantare nell’intero mondo, dopo due millenni di indaffarata predicazione».

 

A pare l’astio di Odifreddi per la tematica cristiana, è importante notare quanto questo spazio digitale sia avvertito in termini tutt’altro che umani; ed è un matematico – e più che ateo, addirittura – ad averlo evidenziato. Può essere soltanto una provocazione, certo, ma siamo comunque entrati nel campo della religione. Da osservatori e non da credenti magari, da studiosi e non da fedeli; ma in ogni caso la spinta analitica, il campo semantico e analogico principali, è lì che conduce.

 

Facebook è un religione? Facebook da parte sua ha tutte le carte in regola per esserlo, una religione intendo. Ha il suo predicatore; ha la sua comunità, o meglio ecclesia, che detta gli standard da poter o non poter violare; ha i suoi devotissimi proseliti; ha perfino un suo codice che potremmo definire sacro. E ci sarebbe poi da riflettere sul fatto che tutti gli iscritti alla piattaforma sono schedati da un sistema generale (teorizzato anche questo da McLuhan, che parlava di “un futuro cervello globale”).

 

Così come Dio, che legge nella mente di tutti i suoi figli, allo stesso modo qualsiasi conversazione su Facebook è monitorata o per lo meno registrata.

 

A questo è inoltre da aggiungere il momento della confessione: privata (in chat) oppure pubblica; nonché le potenzialità della bacheca spesso trasformata in una sorta di pulpito, un microfono perfetto dove ogni utente-prete declama la propria omelia; e non manca neppure la dimensione punitiva, di un’implacabilità quasi veterotestamentaria: i più irrispettosi, infatti, andranno incontro a un blocco temporaneo del profilo, metaforicamente una pseudomorte della (casuale?) durata tre giorni, alla quale seguirà una pseudoresurrezione, che, si spera, porterà alla rinascita morale dell’utente in questione.

 

«A ben vedere però», mi spiega ancora Biagio Cacciola, «una censura simile non è riscontrabile nei sistemi religiosi, e meno che mai nel Cristianesimo. Sul giocattolino di Zuckerberg viene punito il peccato di hybris, proprio come avverrebbe nelle comunità militarizzate, negli ordini di un certo livello, nei Templari ad esempio. Si viene ostracizzati come nell’antica Grecia, si è fuori dal gruppo, il gruppo che conta, e per essere riammessi si deve passare dall’umiliazione e dalla segregazione: tutto ciò rappresenta una regressione assoluta in termini di evoluzione sociale. Il mio peccato di cattolico posso levarlo via recitando un Padre Nostro, ma su Facebook non funziona così. Su Facebook fa scuola lo spettacolo, l’esecuzione virtuale ma per alcuni molto reale, un vero e proprio delirio di onnipotenza».

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