Dop ciociare: «Lo capiranno che è oro, non bigiotteria»

Sono fatti lì, proprio quei cornetti rossi unicamente dolci e digeribili. Ma non vengono certificati come Peperoni di Pontecorvo Dop. Perché? Burocrazia, altre spese, ancora malattie delle piante. Ma Luigi Castrechini, presidente del Consorzio di tutela del marchio, vede la luce: «Nei prossimi anni migliorerà sia la produzione che tutto il resto»

Marco Barzelli

Veni, vidi, scripsi

I numeri non quadrano. Quelli indicati nei giorni scorsi dalla Camera dei Commercio non coincidono con quelli dei produttori. Ma soprattutto non coincide il contesto. C’è un percorso che potrebbe riallineare cifre e posizioni sulle Dop e le Igt. Occorre però la volontà di costruire un dialogo.

Tutto nasce dalla decisione presa l’altra settimana: la Camera di Commercio di Frosinone e Latina non è più Autorità di controllo delle tre Dop ciociare, cioè i tre prodotti agricoli di eccellenza e tutelati per questo su scala europea con il riconoscimento di Denominazione di Origine Protetta oppure Indicazione Geografica Tipica. In pratica: il peperone cornetto di Pontecorvo, il fagiolo cannellino di Atina il formaggio Pecorino di Picinisco.

Il presidente Giovanni Acampora ha detto che il gioco non vale la candela. Vede «un progressivo disinteresse da parte degli operatori delle filiere», scarse produzioni. Quindi non più l’utilità bensì l’onerosità di essere Controllore per conto del Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. «Il riconoscimento del marchio – ha fatto presente Acamporanon ha centrato negli anni l’obiettivo di creare l’auspicato valore aggiunto negli areali coinvolti». (Leggi qui Dop ciociare: poca roba, così non ha più senso).

È vero, lo conferma anche Luigi Castrechini, presidente del Consorzio di tutela di uno dei prodotti ciociari Dop: il Peperone di Pontercorvo. Ma facendo una serie di puntualizzazioni fondamentali. Per la Camera di Commercio cornetti di Pontecorvo, la cui dolcezza e digeribilità li rendono unici, ne risultano prodotti appena 66 quintali in un anno. «I quantitativi espressi dalla Camera di Commercio – puntualizza Castrechini – non sono neanche il dieci percento della produzione effettiva».

Peperoni fatti lì, ma non di Pontecorvo

Luigi Castrechini

Perché soltanto il 10%? Il nervo scoperto è proprio la certificazione. «L’iter di certificazione viene ritenuto troppo macchinoso dai produttori. Preferiscono vendere il prodotto senza marchio – spiega lo stesso Castrechini – visto che la bontà è talmente risaputa dai consumatori locali che non cercano il Dop».

Tra le Valli del Liri e dei Santi, ricapitolando, di cornetti rossi ne produrrebbero in realtà oltre 700 quintali all’anno. Soltanto per una minima parte, però, si fa tutta la trafila burocratica e onerosa per commercializzarla come prodotto Dop. Chi li conosce lo sa che meritano il marchio di qualità, quindi se li compra a occhi chiusi.

Chi li coltiva e vende, allora, tende a saltare «una diga burocratica – la definisce il leader del Consorzio peperonista – che spaventa i singoli produttori del nostro territorio». In Italia non mancano già casi di rinuncia alla certificazione Dop per eccesso di burocrazia e spese.  Quindi eccome se ne fanno di peperoni “a” Pontecorvo, ma sinora non “di” Pontecorvo.

Le malattie dei peperoni Dop

«Ogni anno il Consorzio ha compilato i documenti per tutti – informa Castrechini – ma negli ultimi due anni qualcuno ha iniziato a fare da solo e nei prossimi migliorerà sia la produzione che tutto il resto». Ecco, la produzione. Per ora si fa il 5% di quello che si potrebbe fare. Perché la burocrazia non è l’unica malattia che affligge i peperoni.

Maculatura fogliare, fusariosi, peronospora farinosa, marciume radicale. Sono tra le più comuni malattie dei peperoni. La guerra è nel vivo anche a Pontecorvo, dove «stiamo combattendo contro le malattie che attaccano le piante – dichiara il presidente del Consorzio di tutela -. Servono ancora due o tre anni per arrivare alla soluzione definitiva, passando a una produttiva dell’80 se non 90%».

Tutt’al più nel 2026, nell’ipotesi peggiore, la produzione passerà da 700 a oltre 10mila quintali: ossia mille tonnellate. Quelli, sì, numeri per cui si potrà davvero iniziare a ragionare in scala nazionale e internazionale. A tal punto da giustificare anche un’Autorità pubblica di controllo per conto del Ministero dell’agricoltura, come pure per le altre due Dop della provincia di Frosinone: il Fagiolo cannellino di Atina e il formaggio Pecorino di Picinisco.

La Pacchiana? Si vede e non si vede

Anche per gli altri due prodotti, ovviamente, valgono le stesse problematiche del Peperone prodotto a Pontecorvo e dintorni: Esperia, San Giorgio a Liri, Pignataro Interamna, Villa Santa Lucia, Piedimonte San Germano, Aquino, Castrocielo, Roccasecca e San Giovanni Incarico.  Soltanto il 10% richiede e ottiene il marchio: già per vendere anche a tutti quelli che non lo sanno ancora che sono così unici e buoni.  

Sul logo c’è una Pacchiana, una donna in costume tipico, che regge un cesto con sei peperoni “di” Pontecorvo. Il settimo Peperone è in primo piano, nel drappo. Quel marchio si vede e non si vede, dunque, perché i produttori si sono sentiti lasciati in balia del mercato libero delle certificazioni. All’aumento dei costi, già ai tempi dei rincari energetici, le produzioni di Dop sono state via via abbandonate.

Non tutti i mali, anche in questo caso, vengono però per nuocere. «La rinuncia della Camera di Commercio all’incarico di Autorità di controllo – dice il tutore del Peperone di Pontecorvo – ci ha spinti a fare sistema con il Fagiolo cannellino di Atina e con il Pecorino di Picinisco, producendo dunque una reazione positiva alla “trovata” dei costi di certificazione onerosi per la Cciaa».

«Lo capiranno che è oro, non bigiotteria»

Giovanni Acampora (Foto: Paola Onofri © Imagoeconomica)

Peperonisti, fagiolisti e pecorinisti Dop, nel mentre, hanno già individuato un altro organo di controllo. Dalla Camera di Commercio, a tal proposito, il presidente Acampora ha detto che confermare l’Autorità d’ambito avrebbe comportato maggiori costi rispetto a un privato specializzato.

Nel Pontecorvese gli ettari potenzialmente coltivabili sono 6mila. Su ogni ettaro si potrebbe produrre anche 30 tonnellate ogni anno. In considerazione della rotazione colturale, la produzione media arriverebbe potenzialmente a oltre 37mila tonnellate. E a un fatturato complessivo di ben 75 milioni di euro. Ma ci sono ancora la burocrazia, le malattie delle piante, le controversie con chi produce peperoni “a” ma non “di” Pontecorvo.

Luigi Castrechini, presidente del Consorzio di tutela del Peperone autoctono, trae le sue pungenti conclusioni: «Tutto questo non potrà mai svilupparsi se la miopia di chi dovrebbe fare l’interesse del territorio, rema contro al pari delle difficoltà nel far comprendere agli imprenditori agricoli che quello che hanno in mano è oro e non bigiotteria, che devono organizzare e studiare nuove tecniche colturali e di conseguenza fare veramente impresa».