La Deposizione di Emanuele, l’Innocente ucciso dalla cattiveria degli uomini

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

La deposizione dell’Innocente di Alatri avviene nel silenzio irreale. Quello delle migliaia di persone raccolte tutte intorno alla chiesa di Maria Santissima Regina. Troppo piccola quella chiesetta dalla linee asciutte ed essenziali, cemento nudo per il campanile e mattoncini rossi per la facciata. All’interno c’è spazio per poche decine di persone: piccolo luogo di raccoglimento nella sterminata campagna di Tecchiena – Castello, non un posto immaginato per accogliere l’ultima scena del martirio di Emanuele Morganti. Quella della Deposizione, il distacco del corpo dell’Innocente dalla croce del suo supplizio e il viatico per la sua collocazione nel sepolcro.

Ha tutto il senso della Deposizione questo funerale per un martire del sabato sera, massacrato in quei non-luoghi frequentati dal popolo della notte: non-persone che hanno il vuoto nell’anima e cercano di riempirlo con la musica a palla che ti vibra forte nei timpani fino a stordirti. Il resto lo fa uno shot di alcool via l’altro. E fa niente se poi gli animi si scaldano: c’è la Security, per quello. Non-luoghi, frequentati da non-persone, con il vuoto dentro: quel vuoto che non ti fa intervenire mentre un piccolo Innocente di vent’anni, sotto i tuoi occhi viene braccato per la piazza e massacrato dal branco a colpi di manganello, pugni sulla testa e con una chiave per smontare le gomme.

 

L’ADDIO
Il rito della Deposizione comincia con dieci minuti d’anticipo. Sono le 14.50 quando Lorenzo Loppa, vescovo di Anagni – Alatri comanda l’inizio del Rito con l’In Nomine Patris… C’è troppa gente per aspettare ancora quei dieci minuti che separano dall’orario fissato sui necrologi. Chi voleva partecipare c’è già, chi è in ritardo non troverebbe comunque posto. La chiesa è colma, il piazzale fuori è come piazza San Pietro nel momento dell’Angelus, la strada è piena di gente come pure i terreni intorno. Che senso avrebbe aspettare?

C’è gente che è lì dal mattino. Da quando alle 11 è arrivato da Roma il carro funebre con le spoglie mortali dell’Innocente Emanuele. L’hanno portato a casa, nella villetta che dista trecento metri dalla chiesa. Mezz’ora per il dolore dei parenti più stretti. E poi il rito della Deposizione ha inizio.

Il papà Giuseppe, la sorella Melissa, il fratello Francesco, gli amici, le amiche, hanno portato a spalla Emanuele fino a Maria Santissima Regina. Che nel frattempo si era riempita di palloncini bianchi e di striscioni: per dire a tutti che nessuno muore completamente, che il sorriso di Emanuele aveva acceso la vita in tanti. Struggente quello che lo ritrae su sfondo azzurro insieme al papà: “Presto torneremo insieme, alle nostre passioni”. Quello accanto dice: «Nessuno muore mai completamente… rimarrai sempre vivo dentro di noi!». Un altro mostra la foto di Emanuele mentre sorride e la scritta «Il perdono lasciamolo a Dio… Per Emanuele solo giustizia». C’è il vuoto, senza Emanuele: “Vorrei solo averti di nuovo accanto, stringerti e dirti che la vita è un po’ meno complicata se ci sei tu con me».

Il parroco don Renzo è in paramenti davanti all’ingresso. Accoglie quel corteo, nel quale tanti indossano la maglietta bianca con la foto di Emanuele all’interno di un cuore. Benedice la bara bianca, coperta da un cuscino di fiori bianchi e da una maglietta di Emanuele. Ha inizio la veglia funebre. Una preghiera continua, sommessa, per tutta la mattinata: Letture, Rosari, litanie sanctorum.

La gente è già tanta. Sempre di più. Al punto che dal microfono chiedono di lasciare respiro a mamma Lucia, le condoglianze gliele potranno dare in un altro momento.

 

IL DOLORE PRIVATO
Alle 14.30 sono già tremila le persone. Non c’è il prefetto, non ci sono le autorità: scelta fatta per rispetto di un dolore privato. Per questo le telecamere non varcano la soglia del dolore ed il sindaco non indossa la fascia. Solo preghiera.

Inizia la Messa. La lettura è quella dalla Lettera di San Paolo apostolo ai Romani: “Non siamo fatti solo di carne ma di spirito. Quello spirito che ha resuscitato Cristo”. Il Vangelo è quello della resurrezione di Lazzaro: Cristo dice “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio”.

Fuori gli altoparlanti portano le Scritture a quelle che sono diventate almeno quattromila persone. E non vola una mosca.

 

‘SIGNORE DOV’ERI? IN QUEL CORPO’
Il vescovo Lorenzo Loppa prende la parola e domanda “Signore dov’eri mentre Emanuele veniva picchiato a sangue?”. La risposta è “Stavo lì, in quel corpo martoriato. E morivo un’altra volta”.

«Quella che si è abbattuta su Emanuele è stata una ferocia disumana, barbara e spietata» dice il vescovo. «Le esequie di Emanuele ci interpellano sulla nostra capacità di amare». Cristo piange nell’apprendere che Lazzaro è morto: ma non sono lacrime per l’amico: è per quello che gli uomini hanno fatto all’opera di Dio. «Ecco chi vince la morte: è l’amore».

Ma anche l’interrogativo sui non luoghi e le non persone. «Non sono abituato a battere le mani sul petto degli altri. Come stiamo accompagnando questi giovani alla vita? Chiediamocelo e non dimentichiamo che siamo cristiani. Gesù è venuto non per insegnarci ad accettare la morte, ma per amare la vita».

Come accettare allora quella violenza cieca, folle, che ha portato al massacro di Emanuele, all’esterno di quel non luogo, sotto gli occhi di non persone? «C’è un solo modo per far finire la violenza: è non rispondere con la violenza. Perché la violenza prospera sulla violenza». E da dove arriva quella violenza? «Una violenza che arriva da lontano e che ha fortemente inquinato i pozzi della convivenza umana“.

Chiede tre regali per Emanuele: «Nessuna tolleranza verso la violenza, scegliere la non violenza come stile di vita e amare di più la vita».

Arriva il momento dell’offertorio, la consacrazione, la Comunione.

 

LA CATTIVERIA DEGLI UOMINI
Mamma Lucia trova la forza per raggiungere il microfono accanto all’altare. Un’altra tappa della sua personale via crucis. Non c’è uno Jacopone da Todi ad assistere alla sua tragedia: per lei avrebbe riscritto lo Stabat Mater Dolorsa uxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius; Lucia è il ritratto della “Madre addolorata in lacrime presso la Croce, con animo gemente, era trafitto da una spada”. Ma Mamma Lucia non ha solo il dolore trafiggente di Maria. Ne ha anche l’amore. «Emanuele è qui. A nome suo, vorrei farvi un applauso, a voi che siete dentro e fuori. Vuole essere il suo grazie. Grazie per ogni lacrima che avete versato per noi. Grazie per ogni preghiera che avete recitato per noi. Grazie per ogni cosa che avete fatto».

Prosegue nel solco tracciato dal vescovo Loppa, mamma Lucia: «Salviamo i nostri ragazzi dalle inquietudini»

Non nutre odio questa mamma alla quale hanno portato via un figlio. Perché è Secundum verbum tuum: “Sia fatto secondo la Tua Volontà” come rispose un’altra mamma alla quale annunciarono che le avrebbero portato via il figlio. Come Emanuele.

«Dio non l’ha chiamato perché è cattivo. Lo ha solo ricevuto dalla cattiveria degli uomini»

 

NON UCCIDERANNO CIO’ CHE SIAMO STATI
Dopo il Deo Gratias, prima che la bara bianca lasci la chiesa, è la sorella Melissa a leggere la sua lettera d’addio a Emanuele. «Ci hai portato il sorriso e asciugavi le mie lacrime quando piangevo e ciò che siamo stati non sarà mai portato via dagli assassini. Quando ho scelto il tuo nome ho pensato al suo significato: speranza e amore. Adesso venga fatta giustizia e chi ti ha portato via abbia un nome. Grazie amore mio per aver reso speciale il nostro viaggio fino a qui».

La bara lascia la chiesa, i palloncini vengono slegati, due colombe bianche vengono liberate ed iniziano a volteggiare intorno alla chiesa. Arriva il momento di andare. In quel lungo, interminabile corteo, che fino alla fine questa volta non lascia solo Emanuele.

Foto: copyright Claudio Papetti

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