Per favore, non chiamatela solidarietà

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

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Per favore, non chiamatela solidarietà. Quella andata in scena a Cassino è solo una cinica storia di affari, scritta con tanti soldi. Incassati alle spalle di esseri umani trattati come merce e di una città considerata come una prostituta. Ed è anche una storia di grande caos, cose fatte in fretta, burocrazia. Tutto sulla pelle dei 40 profughi arrivati e poi spariti da Cassino dopo essere stati lasciati per ore sotto al sole.

La storia comincia quando da Frosinone Nicola Ottaviani ordina di smontare le tende nell’ex Mtc dove sono sistemati in via d’emergenza una quarantina di profughi. Il sindaco è stato diretto: «Sì all’accoglienza ma non mi piace il gioco del cerino» contestando il modo in cui si sta gestendo l’emergenza. Non gli piace quello che sta accadendo. Cosa c’è dietro: quel campo era stato allestito dalla Protezione Civile e gestito con la Croce Rossa: tutte iniziative di volontariato, con il disaster manager Ruggero Marazzi ed i suoi a passare intere giornate per assicurare che ogni cosa funzionasse alla perfezione. Oltre un grazie, una visita di cortesia ed una pacca sulla spalla, nessuno però si è fatto vedere con il borsellino in mano. In pochi giorni i soldi sono finiti, il Comune non è nelle condizioni di mettere nemmeno un centesimo. Quindi, via le tende.

La verità è che i profughi, ormai, sono merce. Nel momento in cui parte l’ordine di smontare il campo, c’è appena stata una gara d’appalto per gestire quei disperati. Quattro le società che hanno partecipato, nessuna è della provincia di Frosinone, tutte sono specializzate in questo settore perché ormai la solidarietà è diventata un lavoro. Le buste sono state aperte e l’appalto assegnato. Quindi, il problema da quel momento è della ditta pugliese che ha vinto i profughi: circa 29 euro al giorno per dormire, mangiare, lavare, studiare, integrare.

Così, parte la telefonata dalla prefettura: cari signori, avete vinto, avete detto di avere un immobile a disposizione quindi vi mandiamo i vostri profughi.

Si scopre che dovevano andare all’ex Alberghiero di Cassino. Ma in 24 ore, nemmeno se fosse stata l’Unicef a vincere la gara, sarebbe riuscita in così poco tempo a firmare il contratto d’affitto con il proprietario, attrezzare la struttura, comprare i letti, riallacciare gas e luce, sistemare i ragazzi sfrattati dalle tende dell’ex Mtc. Si passa allora al piano B, l’ex caserma della polizia stradale: più in centro ma con gli stessi problemi. Tutto troppo in fretta.

Intanto i ragazzi sono arrivati in carovana fino al cortile dell’ex caserma. Qualcuno gli apre il cancello e loro restano lì, sotto al sole senza lamentarsi: come dei pacchi postali che aspettano il corriere incaricato di metterli sul muletto e impilarli nel loro scaffale. Aspettano che arrivi un rappresentante della ditta che li ha vinti in appalto. La gente intanto si affaccia dai palazzi e vede quei disperati buttati sull’asfalto, silenziosi: temprati dalle guerre che hanno decimato le loro famiglie, dalla fame che gli ha ucciso i fratelli, dai soldi raccolti in tutti i modi dalle loro famiglie per regalare al maschio più giovane la speranza di sopravvivere, dagli stupri subiti sotto i loro occhi come un ticket che le donne e le bambine devono pagare per sovrapprezzo se vogliono lasciare la capanna in cui sono state ammassate e salire sul barcone, dalle cinghiate sferrate dallo scafista per fare in modo che nessuno si sposti troppo e faccia rovesciare la bagnarola sulla quale sono stipati, pregando che Allah la faccia rimanere a galla.

Sono sopravvissuti a questo: cosa vuoi che sia qualche ora sotto il sole di Cassino, dove dal bar vicino ti portano pure le bottigliette d’acqua ma nessuno le apre perché non gli viene dato l’ordine?

La città viene a sapere. Tutti cercano tutti. In Comune capiscono. E nessuno ha intenzione di togliere le castagne dal fuoco ad una Prefettura che è stata precisa nell’applicare la sentenza con cui gli acquedotti cittadini sono stati assegnati ad Acea. Così, il sindaco Carlo Maria D’Alessandro è fuori, il vice sindaco Carmelo geremia palombo passa un attimo solo dopo un bel po’. Il problema è della prefettura che ha spedito lì quella gente e non si è degnata nemmeno di fare una telefonata. Se lo risolvesse lei.

Ma in prefettura, nessuno ha telefonato a nessuno perché è il business bellezza: l’Associazione Comuni d’Italia ha fatto l’accordo con il Ministero dell’Interno, in base a quell’intesa sono state bandite le gare d’appalto, da Palazzo di Governo a Frosinone devono parlare solo con la ditta. E’ il grande affare dell’accoglienza: c’è chi ha un palazzo sfitto e ci deve pagare le tasse a vuoto, c’è una cooperativa che ha vinto l’appalto, fanno il contratto e lì dentro ci vanno i migranti. Nessun Comune può vietare a dei privati di affittare e ad altri privati di sistemare lì dei disperati.

Il business – se vai a vedere bene – è un po’ per tutti. E’ per chi affitta la casa, per chi lava e stira, chi insegna l’italiano, chi gestisce il tutto, chi tira le fila. E’ un affare anche per lo Stato che così fa camminare l’economia, riaffitta le case vuote, riempie i supermercati, fa guadagnare qualche euro a chi lavoricchia. Tanto paga l’Europa. Perché così noi facciamo da filtro e ci teniamo per un po’ di anni i disperati in questa specie di Disneyland, fino a quando qualcuno paga. In Egitto lo hanno capito e pagano i trafficanti per far arrivare qui i minorenni: soli, non accompagnati. Perché la legge dice che se arrivano qui li devi sfamare, vestire, accudire: anche se sono egiziani e non scappano da nessuna guerra. Te li devi tenere anche se tentano di violentare la signora delle pulizie nel centro in cui sono stati alloggiati.

Intanto, i profughi hanno passato la nottata nei locali dell’ex Mercatone. Poi la società che li ha vinti ha individuato un’altra sistemazione, provvisoria, in attesa che i lavori di sistemazione negli stabili disponibili a Cassino vengano eseguiti.

E’ solo una questione di tempo. Tutto regolare. Tutto legale. Che si può raccontare solo perché quei 40 profughi sono rimasti sotto al sole per un pomeriggio intero.

Almeno, però, non chiamiamola solidarietà.

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