Fischi e fiaschi della XXI settimana 2022

Fischi e fiaschi: i fatti centrali ed i protagonisti della XXI settimana 2022. Per capire meglio cosa è accaduto e cosa ci attende nei prossimi giorni

Fischi e fiaschi: i fatti centrali ed i protagonisti della XXI settimana 2022. Per capire meglio cosa è accaduto e cosa ci attende nei prossimi giorni

GIORGIA MELONI

Meloni e Mastrangeli

Assume una statura ed uno spessore politici sempre maggiori con il passare delle settimane. E non è una questione di urla lanciate dal palco. Non più, quella fase è alle spalle. Ora è questione di sostanza. Come quella messa in campo a Frosinone durante la sua visita a sostegno dell’elezione di Riccardo Mastrangeli a sindaco. O quella messa in evidenza nelle ore scorse facendo fare a Matteo Salvini la figura dello scolaretto colto con il gessetto in mano a scrivere le parolacce sulla lavagna. (leggi più avanti).

La Giorgia Meloni di oggi non è più il fenomeno folkloristico del centrodestra, non è la colonna nostalgica di un passato ormai tramontato, non è la voce femminile che serve sempre perché così anche le donne vanno a votare. È la leader di un fronte politico nel quale l’età di Berlusconi ne limita lo scatto e l’inadeguatezza di Salvini lascia con poche idee.

Il vero rischio ora sarà quello di avere una classe dirigente all’altezza. Non si può andare di notte a cancellare le chat con saluti romani e frasi che dimostrano d’essere rimasti agli anni Novanta di fine millennio scorso. La rotta è quella di una Destra europea, con idee e progetti di destra: che non hanno nell’armadio né olio di ricino, né manganelli, né orbace; e nel repertorio non hanno pittoreschi passi dell’oca che al fronte non servono.

Lei è Giorgia e va alla grande: e gli altri?

GIUSEPPE CONTE

Nulla da dire. Quando parlano i fatti bisogna solo alzare le mani ed arrendersi di fronte all’evidenza. Giuseppe Conte nella sua visita a Frosinone a sostegno dell’elezione di Domenico Marzi a sindaco ha dimostrato di avere consenso e popolarità. Che sono elemento fondamentale per fare politica.

Ancora una volta ha avuto ragione Nicola Zingaretti che lo vedeva come guida del fronte dei Progressisti. L’hanno preso per matto al punto da fargli capire che era meglio dimettersi da Segretario del Partito Democratico. Zingaretti aveva capito ciò che era evidente ma che la classe politica non vedeva: Giuseppe Conte è popolare perché viene visto come un elemento estraneo al sistema, che non sta mai sopra le righe anche quando alza la voce, che si fa capire sempre e comunque dai suoi interlocutori. Ai moderati ed ai pensionati italiani questo piace alla follia. E sono percentuali belle grosse.

Se alla forma ora affiancasse anche la capacità della sostanza politica sarebbe un leader vero. E non soltanto da copertina.

Giuseppi il popolare

MAURIZIO STIRPE

Intransigente e di mediazione è stato confermato per questo al timone di una delle vicepresidenze più rognose di Confindustria nazionale. Maurizio Stirpe non è mai stato un tipo né comodo né accomodante: lavora come se il prossimo domani fosse l’ultimo e pretende altrettanto dalle controparti che insieme a lui devono individuare una soluzione.

In totale sintonia con il suo presidente Carlo Bonomi è amareggiato di fronte ad una Politica alla quale avevano proposto “di affrontare la ripresa italiana attraverso un grande Patto per l’Italia, pubblico e privato, imprese e sindacati, tutti insieme“. E che invece ha assistito alla totale assenza di impegni comuni.

Ruvido come la carta vetrata ma stesa su un panno di seta, Maurizio Stirpe poche ore dopo la conferma alla vicepresidenza ha mandato a dire ciò che pensava. E l’ha fatto dal tavolo di un congresso di un sindacato. Dicendo “Se vogliamo far fare al sistema complessivo un passo in avanti dobbiamo fare tutti un passo indietro. Se ci sediamo al tavolo pensando che uno ha ragione e l’altro ha torto non si fa nessun tipo di accordo. Bisogna fare un grosso bagno di umiltà e affrontare i temi con pragmatismo“.

Il fatto è che nessuno ormai guarda al Paese ed al suo sviluppo. Ma ognuno guarda alla prossima elezione. Tranne gli industriali: che non possono ragionare sul prossimo Bilancio ma devono farlo sulla prospettiva della prossima generazione di mercato. “Le materie su cui cimentarsi ci sono. Ci vuole però la volontà di approfondirle da un punto di vista tecnico. Se noi lo vogliamo fare con la demagogia e gli ideologismi non otteniamo alcun risultato perché né io né il presidente Bonomi dobbiamo fare alcun tipo di elezione“. 

Seta ruvida

FLOP

LUIGI DI MAIO

Luigi Di Maio (Foto: Alessia Mastropietro © Imagoeconomica)

Una figuraccia più grossa di quella planetaria fatta a distanza con uno degli assi della diplomazia mondiale, Sergej Viktorovič Lavrov. Fu il ministro degli Esteri di Mosca all’inizio del conflitto con l’Ucraina ad umiliare il capo della Farnesina Luigi Di Maio ricordandogli che «ha uno strano concetto della diplomazia, non è andare in giro per il mondo ad assaggiare pietanze esotiche». Ora Luigi Di Maio ha bissato: facendo tutto da solo ed in casa.

Sono sempre i russi a fargli tana. «Un piano di pace dell’Italia? Quando lo leggeremo, giudicheremo». In pratica: a loro che sono una delle parti nel conflitto non era stato comunicato: e che piano è allora? Lo classifica il vice presidente russo Dmitrij Medvedev: «un flusso di coscienza slegato dalla realtà»; traduzione dal compito linguaggio diplomatico: una cialtronata dilettantesca.

I danno ragione al politico che fece da paravento a Putin nel periodo in cui non poteva assumere la carica a vita. Il piano in quattro punti fornito da Luigi Di Maio al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non era stato elaborato con il Governo, non era stato condiviso con nessuno, Mario Draghi pare ne sia venuto a conoscenza leggendo La Repubblica. Secondo la quale quel testo era nato «in stretto collegamento con palazzo Chigi».

Ma che roba ha dato il nostro ministro degli Esteri alla massima espressione della diplomazia mondiale? Una bozza. Un’indicazione informale. Un testo concepito dagli uffici della Farnesina come pro memoria per il Ministro e che tale doveva restare. E invece Luigi Di Maio ha fatto come già fece negli anni Settanta l’allora sottosegretario Vincenzo Ignazio Senese da Sora. Che una sera costrinse l’allora capo dell’ufficio Studi di Bankitalia Antonio Fazio a fare l’alba per preparare una relazione sulle fluttuazioni della Lira.

L’indomani Senese si presentò a colloquio con il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti: “A Giu’, guarda che te sò purtat’ ”. Con la differenza che Andreotti sapeva benissimo non si trattasse di farina del sacco di Senese ma di Fazio; e Fazio sapeva benissimo che quella relazione non sarebbe rimasta nella scrivania del sottosegretario al Commercio Estero ma sarebbe finita a Palazzo Chigi e pertanto la scrisse con ogni criterio.

Qui non è chiaro chi abbia giocato con chi: se il ministro o chi aveva intuito le sue intenzioni e l’ha lasciato fare; ma la figura dei dilettanti e dei digiuni di come ci si comporta ai tavoli mondiali l’abbiamo rimediata.

Meno pietanze esotiche, più diplomazia.

MATTEO SALVINI

Il colpo definitivo glielo ha assestato ieri sera Giorgia Meloni. Facendo fare a Matteo Salvini la figura dello sprovveduto cacciatore di like, disposto a giocarsi anche la faccia del Paese. Dice ai suoi interlocutori la presidente di Fratelli d’Italia, a proposito del millantato viaggio di Salvini in Russia per fermare la guerra «Non ne conosco i contorni. Non bisogna dare l’impressione, nell’altra metà del campo, che ci si possa infilare nelle crepe del fronte dei Paesi occidentale. Noi abbiamo bisogno in questa fase di una postura solida dell’Occidente. Dobbiamo presentarci coesi». Lei fa la parte della statista e lui del dilettante.

Il fatto è che quel viaggio, annunciato prima che pianificato, doveva servire ad uso Interno e non Estero. In pratica, Matteo Salvini intendeva darsi una statura internazionale, facendo fare una magra figura ai titolari di Palazzo Chigi e della Farnesina, soprattutto oscurando l’astro sempre più luminoso di Giorgia Meloni.

Ancora una volta ha toppato nella ricerca del facile consenso: come fece al citofono di Bologna, sulla sabbia del Papeete, in Transatlantico quando ha ingarbugliato le trattative per il Quirinale. Per non parlare della figura da Eurovisione rimediata quando ha provato a fare il populista in Polonia.

Ridategli Morisi.

CARLO CALENDA

Vicano Sardellitti e Calenda

Non se n’è reso conto. Ma la sua decisione di stare contro il Movimento 5 Stelle e qualunque schieramento che lo veda al suo interno, sta portando Azione e Carlo Calenda a fare la quinta colonna della destra. Come è stato evidente a Frosinone in questa tornata elettorale.

Perché il dialogo tra Pd e M5S è continuato. Generando un processo di sviluppo e contaminazione per entrambe le formazioni, come dimostra quanto sta accadendo in Sicilia. Il Pd ad esempio ha perso la sua naturale tendenza a fagocitare chiunque gli si avvicini elettoralmente; addirittura ha modificato la sua idea di Primarie, mettendosi in discussione. Allo stesso modo, il M5S ha visto la partenza di un’altra aliquota dei professionisti del No che consente così di non impegnarsi in nulla, mettendo ancora quelli del No ma sediamoci e troviamo una sintesi. Vedasi la posizione di Roberta Lombardi sul termovalorizzatore di Roma.

In questo modo Carlo Calenda rischia di isolarsi, autoescludendosi da un Campo Largo nel quale è invece la sua posizione naturale. Come dimostra la posizione in Regione Lazio. La collocazione all’esterno del Campo è un favore alle destre, volente o nolente: perché drena risorse, accentua la divisione, proietta l’immagine di un centrosinistra incapace di trovare un punto di mediazione.

Poche idee e pure confuse

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