Il Frosinone che non si sente in casa (di E. Ferazzoli)

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Se allo Stirpe esiste una maledizione, alberga nelle bocche di gran parte del pubblico, capace solo di criticare e non di incitare. Se il Frosinone non vince in casa, sarà forse perché non si sente a casa?

Elisa Ferazzoli

Giornalista in fase di definizione

È inutile fingere di non aver avvertito quel silenzio sordo che fanno i sogni quando si infrangono contro una spietata realtà.

Allo Stirpe, il Frosinone non vince. Va in vantaggio in un primo tempo nel quale conduce il gioco tenendo a bada il suo pericolosissimo avversario. Tornato in campo, inizia ad arrancare, si abbassa troppo, fa fatica ad uscire dalla propria metà campo e quando lo fa appare frettoloso e impreciso.

Come domenica. Il Torino vuole ribaltare la partita, il Frosinone inizia ad avere paura del proprio vantaggio, è stanco psicologicamente e fisicamente. Sa che il Bologna ha vinto col Cagliari, sa che i tre punti sono questione di vita o di morte, sa che deve e vuole dimostrare di riuscire a vincere per la prima volta di fronte al proprio pubblico.

Troppo peso da sostenere per 45 lunghissimi minuti. Prova a reggere l’urto ma di fronte c’è una squadra che gioca con la leggerezza e la convinzione di chi non deve necessariamente dimostrare il proprio valore ma, forte della classifica e di una sequenza positiva lunga sei gare, può permettersi il lusso di giocare e basta.

Un secondo tempo che se ne va avvolto in un parziale silenzio di gran parte dello stadio. Doveroso far notare che la prestazione avuta sugli spalti rispecchia in pieno l’andamento di gara.

E se allo Stirpe esiste una maledizione, quella alberga nelle bocche della gran parte del pubblico presente, capaci solo di sferrare critiche inopportune ad ogni singolo errore dei giocatori con mormorii e fischi ma opportunamente sigillate quando si tratta di cantare, incitare e sostenere. Se il Frosinone non vince in casa, sarà forse perché non si sente a casa?

Accade l’inevitabile, doppietta di Bellotti e quei tre fischi che segano le gambe, che strangolano la voce, che insinuano un terribile dubbio: “stavolta è davvero finita”.

Ma dove chiunque può vedere la fine, è lì che i più ostinati sognatori scorgono l’inizio.

Un inizio che non ha nulla a che fare con matematica, classifica e dirette avversarie. Perché le 11 giornate di campionato, i 33 punti virtuali a disposizione, le lunghezze pressoché invariate delle dirette concorrenti per la salvezza, il bicchiere, possono farlo apparire sia mezzo pieno sia mezzo vuoto.

È invece un inizio segnato dai ritorni. Quello di Luca Paganini, andato vicinissimo al goal contro il Genoa, oggi autore della rete del vantaggio e di una gara che lo ha visto protagonista indiscusso. Luca è tornato, dimostrando di avere nelle gambe e nella testa tutta la preparazione e la fame agonistica che lo rendono quello che è. Un giocatore agile, instancabile e dal quale non si può prescindere.

Quello di Mirko Gori. Presente dal primo all’ultimo minuto in ogni parte del campo. Una prestazione che rende onore e merito all’inesauribile temperamento del numero 5. Chiamato ad essere titolare per la prima volta, ha dimostrato – a chi avesse dei dubbi – di poter dire la sua in questa categoria. Sua la conclusione che al 6’ impegna Sirigu per la prima volta.

Frosinone-Torino è il ritorno in panchina di Federico Dionisi. E se esiste un giocatore che più di ogni altro può tirar fuori dai propri compagni la cattiveria agonistica e forza di lottare anche di fronte ad una ipotetica condanna quello è solo lui. Lo ha fatto contro il Venezia, lo ha fatto nella finale contro il Palermo, lo farà anche stavolta. Lo spettacolo andato in scena nei suoi ultimi 10’ di panchina, durante i quali si è mosso in modo forsennato, facendo avanti e indietro, come un leone in gabbia, incitando la squadra e inveendo contro chissà chi, non è passato inosservato a chi lo aspetta da mesi, a chi non vedeva l’ora di ritrovarselo di nuovo di fronte.

“La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto.”

E se c’è una cosa che Frosinone oggi non può permettersi di fare è agire secondo logica ed immaginarsi sconfitto. Non lo merita questa città e non lo merita questa squadra che ha faticato molto per arrivare ad essere quella che è. Una squadra rimodellata grazie all’intervento di mister Baroni, una squadra che in un crescendo di prestazioni ha fatto i conti con i propri limiti psicologici dimostrando di saperli gestire di volta in volta. Una squadra che progressivamente ha imparato ad essere consapevole, a pretendere da se stessa, a non lasciarsi travolgere dagli eventi – vedi l’inferiorità numerica contro il Genoa per 60’ – a reagire, a ripartire, a non avere timori reverenziali, ad affrontare ogni gara come si fa con una finale.

Ma farle sentire addosso la pressione di dover vincere in casa e palesarle la delusione in corso d’opera non è senza dubbio una strategia incoraggiante.

Come con l’amore, anche la vittoria allo Stirpe arriverà solo quando avranno smesso di cercarla a tutti i costi.