Gli eroi in camice per curare il dolore degli altri. E giocare con i bimbi di Banksy

La giornata degli infermieri: finiti in prima linea nella guerra al mostro invisibile che ruba l'aria ai pazienti. Uomini e donne senza divisa. Ma con un camice. Che fa della loro vita una missione: prendersi cura degli altri. Oggi è stata la loro giornata mondiale

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Banksy gli ha dedicato uno dei suoi capolavori, il disegno del bambino che gioca con i supereroi e tra loro sceglie un infermiera. Non è un caso che uno dei simboli di queste infinite settimane di pandemia sia stato la foto di un’infermiera stremata, crollata a dormire sulla tastiera di un computer. Donne e uomini che indossano un camice e fanno della loro vita una missione: curare gli altri, alleviare il loro dolore, rendere sopportabile quello intimo di chi vede un parente morire. Soldati senza divisa, mobilitati sulla linea del fronte di una guerra non dichiarata ma scatenata da un virus capace di decimare in poche settimane un’intera generazione.

Il tributo di Banksy alle infermiere

Sono stati gli unici testimoni della strage. Quella che ha portato via la gente della canottiera e delle spalle bruciate dal sole, quella delle macerie rimesse su una sull’altra, quella della fame e della malaria, del prosciutto tagliato solo a Pasqua e che la cioccolata l’ha conosciuta tardi. Il virus gli ha imposto un’ultima privazione: la carezza di una figlia o di un nipote, di un marito o una moglie sopravvissuti al coronavirus. Mentre loro andavano via. Solo un’infermiera o un infermiere accanto al loro loro capezzale, talvolta con un cellulare per un’ultima telefonata, un video per dire addio addio. Sussurrare ‘resisti‘. Senza poter piangere.

«Si, c’è stato un momento in cui mi sono sentita orgogliosa dei miei infermieri. È stato il primo giorno, quando da un minuto all’altro abbiamo visto arrivare pure da noi a Frosinone l’onda del Sars-Cov2. Abbiamo dovuto chiedere a tutti di riorganizzare la loro vita: lasciare il lavoro fatto fino a quel momento nel loro reparto e diventare infermieri pronti a gestire pazienti Covid. Lo hanno fatto. Lo hanno fatto senza creare nessun problema. Anzi. Lo hanno fatto con grande spirito di collaborazione. Così come hanno fatto infermieri che mancavano da anni da reparti e quando li ho chiamati non hanno esitato un istante a dire Eccomi sono pronto. Mi sono sentita orgogliosa del loro lavoro ogni giorno».

Voce narrante di Lorena Martini, direttore delle Professioni Sanitarie e Infermieristiche nella Asl di Frosinone. È stata lei a dover organizzare tutto: perché le caserme si reggono sui marescialli e gli ospedali si reggono sugli infermieri e le infermiere.

L’infermiera che dorme stremata

«Eroi? Preferiremmo essere chiamati con il nostro nome: siamo infermieri e questo è il nostro lavoro».

«L’Infermiere lo troviamo alla tenda ad accogliere il cittadino per fare il pre-triage. È lì ad evitare di creare promiscuità e contagio negli ambienti del Pronto Soccorso. Lo troviamo accanto al paziente, magari con il volto nascosto dietro la mascherina e coperto dalla tuta, ma pronto a farsi carico con competenza e professionalità dell’intero percorso assistenziale. È lì, fino a combattere i momenti più critici della malattia. Senza mai tralasciare il contatto umano con il paziente e i suoi famigliari».

L’emergenza è finita. I riservisti chiamati in prima linea sono stati congedati, i reparti si sono svuotati, la linea del fronte si è accorciata. Gli infermieri e le infermiere sono ancora lì. 

«È lì, protagonista oggi nella fase 2, come figura chiave per supportare pazienti e medici sul territorio. È ancora l’Infermiere a cui chiediamo di curare il monitoraggio dello stato di salute degli assistiti, mediante visite domiciliari, follow up telefonici, telemedicina. E’ lui ad evitare che sia la persona a rivolgersi ai servizi solo quando sono già presenti disturbi o complicazioni. Lui è quindi in grado di orientare e facilitare l’accesso appropriato e tempestivo del cittadino a tutti i servizi esistenti».

Infermieri nella terapia intensiva di Frosinone. Foto © Paolo Ceccano

Qualcuno è fuggito, pochi si sono dati malati. Rari casi. «Nonostante la drammaticità della situazione, in molti sono stati al loro posto, non sono fuggiti ma hanno continuato fino allo stremo delle loro forze ad esserci. Questa emergenza ha reso evidente a tutti chi sono gli Infermieri! La pandemia è riuscita a tracciare il profilo dell’Infermiere più di quanto non abbiano fatto le norme. A far riconoscere il valore professionale e mettere in risalto gli aspetti umani di tale professione»

Orgoglio in tutti gli oltre cento giorni di lotta al mostro invisibile che rubava l’aria agli anziani come ai giovani, cercando di farli morire poco a poco. Con una consapevolezza in più: «Al personale di Frosinone manca nulla per essere paragonato a quello in servizio nelle grandi città». Perché sono uomini e donne con un camice che fanno della loro vita una missione, prendersi cura del dolore degli altri. Fino a giocare con i bambini di Banksy.