Gli stabilimenti di Fca preoccupano il governo

Dietro il silenzio dopo l'incontro tra Conte e Di Maio da una parte ed Elkann e Manley dall'altra c'è la tensione dell'esecutivo per il ritardo dei modelli per l'Italia. Stelvio non è una sfida vinta. Il futuro di Cassino legato ai risultati in Cina.

di SAMUELE CAFASSO

per LETTERA43

 

Quando lo scorso 12 settembre l’incontro tra John Elkann e il nuovo amministratore delegato di Fca Mike Manley da una parte e il premier Giuseppe Conte e il suo vice Luigi Di Maio dall’altra si è concluso con un nullla cosmico di dichiarazioni, a molti osservatori è sembrato strano che un governo così mediatico non cogliesse la palla al balzo per preannunciare i nuovi piani per l’Italia della casa automobilistica, soprattuto nel campo delll’elettrificazione e dell’ibrido tanto caro al Movimento cinque stelle e su cui il gruppo ha annunciato investimenti per 9 miliardi nel corso del nuovo piano industriale.

L’IMBARAZZO PER GLI STABILIMENTI ITALIANI

A una settimana di distanza, quello che trapela da Roma è che ci sarebbe un certo imbarazzo, per non dire irritazione, di fronte al rischio concreto che Fca, che in Italia dà lavoro a 66 mila persone senza contare Ferrari e Cnh, sia costretta a ricorrere agli ammortizzatori sociali anche per il nuovo anno, essendo i piani per gli stabilimenti italiani tutt’altro che definiti, mentre ancora deve essere nominato il successore di Alfredo Altavilla alla guida delle attività europee.

In particolare preoccupa nell’immediato il futuro di Pomigliano (soprattutto) e del polo torinese Mirafiori-Grugliasco, in prospettiva quello degli stabilimenti di Magneti Marelli (in vendita) e dello stabilimento di Pratola Serra che oggi è concentrato sui motori diesel, di cui è stato annunciato l’abbandono nel 2022.

In ballo ci sono migliaia di posti di lavoro in un momento complicato per il governo, che pur in presenza di consensi stellari si trova a gestire una congiuntura economica difficile con segnali preoccupanti sul versante della produzione industriale.

 

L’EREDITÀ DI SERGIO MARCHIONNE

Spento il clamore per le celebrazioni in memoria di Sergio Marchionne dello scorso 14 settembre, l’Italia si trova così a gestire un rapporto con Fca decisamente controverso: l’azienda avrà pure conti in ordine e andamenti azionari che fanno sorridere gli investitori, ma a livello industriale la ripartenza della produzione del polo del lusso nel nostro Paese rimane per ora sulla carta.

In un report dello scorso giugno, la Fiom segnalava che, con l’eccezione dello stabilimento Sevel di Val Di Sangro, in tutti i poli erano attivi ammortizzatori sociali.

Due i problemi principali: il rilancio di Alfa Romeo, le difficoltà a sfondare in Cina, un mercato che per altro il nuovo amministratore delegato Manley dovrebbe ben conoscere essendo stato responsabile di Asia e Pacifico dal 2011 al 2017.

 

Vediamo i dettagli della situazione italiana stabilimento per stabilimento a oggi, partendo dal Nord Ovest.

Il polo torinese (Mirafiori e Grugliasco), 5 mila dipendenti, al momento ha tre linee di produzione tutte per il marchio Maserati: Ghibli, Quattroporte e Levante, che per adesso non è riuscito a sfondare né in Cina né negli Usa. Maserati è il marchio di punta del lusso Fca, ma questo non basta a saturare le linee di produzione, dove sono in vigore i contratti di solidarietà, mentre alcuni lavoratori sono già stati spostati da una fabbrica all’altra.

Scendendo verso Sud, a Modena (Maserati, circa 1.000 dipendenti) c’è piena occupazione e lo stesso a Chieti nello stabilimento Sevel di Val di Sangro (mezzi commerciali, 6 mila lavoratori).

Cassino, dove è invece in vigore la cassa integrazione ordinaria e lavorano 4.380 persone, è legato ai successi (e insuccessi) del rilancio di Alfa Romeo. La Giulia, come noto, ha avuto una nascita lunga e travagliata,

il Suv Stelvio è una scommessa ancora da vincere. Risuonano le parole dello stesso Marchionne, pronunciate lo scorso giugno a Balocco: «Devo confessare», disse, «che abbiamo fatto due sbagli: abbiamo sottostimato la complessità industriale di un brand così complesso come Alfa Romeo. E ciò ha provocato dei ritardi […]. Il secondo sbaglio è che abbiamo sottovalutato la reazione dei nostri competitor tedeschi».

Alfa non è ancora quello che Marchionne pensava potesse diventare, e questo si vede dalle vendite sia in Italia sia all’estero.

IL NODO POMIGLIANO E L’AUTO ELETTRICA

È nel Mezzogiorno però che la situazione si fa ancora più difficile, a eccezione di Melfi (oltre 7 mila lavoratori) che, sebbene manchino annunci ufficiali, dopo la Renegade e la 500X dovrebbe avere in linea di produzione anche la Jeep Compass.

A Pomigliano, dove si produrrà la Panda sino a fine piano e per il momento nient’altro, è nebbia fitta, con lo spettro di 2.445 esuberi su una forza lavoro di 4.750. E c’è poco da stare allegri anche a Pratola Serra dove i 1.813 lavoratori sono impegnati a tempo pieno, ma su un prodotto (i motori diesel) senza futuro.

I sindacati sono in fibrillazione. Gianluca Ficco, Uilm, chiede che «i nuovi modelli annunciati nel corso della presentazione del piano industriale siano assegnati alle fabbriche, perché senza questi non è possibile raggiungere la piena occupazione negli stabilimenti italiani».

A ottobre è previsto un incontro al ministero del Lavoro per fare il punto della situazione su Pomigliano che è, per altro, la città natale del ministro il cui pallino è l’auto elettrica e l’ibrido. Il problema è che nell’orizzonte immediato Fca non ha particolari programmi in questo campo, con il risultato che anche eventuali incentivi per rottamazione a favore di auto verdi – un grande classico in Italia – rischierebbero di avvantaggiare solo gli stranieri.

MAGNETI MARELLI IN VENDITA E IL POLO TORINESE

«Ma anche per il polo produttivo torinese la situazione è altrettanto urgente, dato che ci stiamo avviando verso la scadenza degli ammortizzatori sociali e i tempi di industrializzazione delle nuove vetture non è breve». Sulla stessa linea la Fiom con Michele De Palma che sottolinea, inoltre, la criticità del dossier Magneti Marelli.

Nei piani di Marchionne l’azienda doveva essere scorporata e quotata in Borsa, adesso si va verso una vendita che inquieta i sindacati essenzialmente per due motivi: la tenuta delll’occupazione, ma anche il rischio che venga disperso un patrimonio di innovazione di cui gli stabilimenti Magneti Marelli sono depositari, anche e soprattutto nel campo dell’elettrico, grande incognita del futuro di Fca.

LEGGI TUTTO SU LETTERA43