I cartelloni di Veroli: gli stessi dai tempi di Tarquinio il Superbo

Racconto semiserio su una fila di cartelloni elettorali. Quelli utilizzati a Veroli per affiggere i manifesti. Da sempre. Oggi sono così arrugginiti che...

Alberto Fraja

Nihil sub sole novi

Vi narrerò la storia dei cartelloni elettorali di Veroli. State buoni se potete ma sopratutto non ridete, siccome verba vana aut risui apta non loqui. Traduzione di Carlo Calenda, quello che ‘se non hai fatto il Classico non sei nessuno’: non pronunziare parole vane che inducono al riso.

Il debutto con Tarquinio il Superbo

Allora, dicevamo. La prima epifania dei totem elettorali verolani è riconducibile al Paleolitico Superiore. Essi furono allineati sulla futura piazza Vittorio Veneto in occasione del referendum confermativo del patto di alleanza con Tarquinio il Superbo, settimo e ultimo re di Roma. Sui cartelloni vennero incollate tavolette di cera sulle quali si invitava l’elettore a recarsi al seggio per esprimere il proprio sì o il proprio no al quesito referendario.

Fu in occasione di quel plebiscito che si ebbero le prime manifestazioni di compravendita del voto. Virgilio nell’Eneide aveva scritto che gli ernici (e quindi anche noialtri verolani) usavano indossare solo un calzare di cuoio grezzo; quello destro lasciando nudo l’alto piede. Tarquinio il superbo ne approfittò promettendo agli elettori di regalargli il sandalo sinistro nel caso si fossero espressi a favore della conferma dell’alleanza. Ottenne ciò che chiedeva e i verolani cominciarono finalmente a non zoppicare più.

Secondo fonti attendibili (Polibio) gli stessi tabelloni di qualche secolo prima riapparvero. Lo fecero in occasione dell’elezione dei membri del Senatus Popolusque Verulanum. Su di essi patrizi e plebei fecero a gara a chi incideva la caricatura dell’avversario più offensiva. La campagna elettorale degenerò e alla fine i ludi cartacei furono annullati.

Gli stessi usati nel Medio Evo

Il confano medioevale di Veroli

I medesimi laminati tornarono a fare non dignitosa mostra di sé, sempre allocati nel medesimo, futuro piazzale Vittorio Veneto. Avvenne in epoca medievale: in occasione del rinnovo del Consiglio delle Corporazioni. Su di essi vennero tracciati slogan elettorali nel segno della diffamazione della gilda avversaria. I maniscalchi accusavano i vinai di annacquare il vino con la gazzosa; i vinai accusavano i maniscalchi di utilizzare per gli zoccoli ferri talmente scadenti da causare ricorrenti fratture multiple ai garretti dei cavalli. La Corporazione degli Speziali accusava quella dei Tessitori di importare tessuti scadenti dalla Cina; la Corporazione dei Tessitori accusava quella degli Speziali di utilizzare cacca di pipistrello per assemblare unguenti. Alla fine il podestà s’incazzò e disse: comando io e amen.

Sui gazebo di cui sopra apparvero manifesti anche in occasione di due plebisciti. Il primo fu quello celebrato in piena Rivoluzione Francese. Il secondo fu indetto subito dopo la raggiunta Unità d’Italia. Nel primo le populace (la traduzione è facile) veniva chiamato a pronunciarsi sul seguente quesito: volete voi venerare per il resto dei vostri giorni la sacra trimurti Liberté, Égalité, Fraternité? Se l’elettore avesse segnato una x sul avrebbe avuto salva la vita. Avesse scelto il no, avrebbero avuto troncata di netto la capoccia. Nota. Sui gazebo erano stati inchiodati manifesti con su disegnata una strana macchina costituita da due travi verticali sormontate da un plinto al quale era assicurata una mannaia che scorreva in una doppia scanalatura praticata nelle travi. Si chiamava ghigliottina. Stravinsero i sì.

Li videro i Savoia

Il secondo plebiscito, un secolo dopo, era caratterizzato dalla domanda: volete voi, papalini del cavolo, diventare sudditi dei Savoia? Se l’elettore avesse segnato una x sul avrebbe avuto salva la vita. Avesse scelto il no, la deportazione non gliela avrebbe tolta nessuno. Sui gazebo sistemati nella futura piazza Vittorio Veneto erano apparsi manifesti con su disegnata la fortezza di Fenestrelle, in Piemonte.

Manco a dirlo, il Ventennio in orbace evitò anche solo di tirarli fuori dal deposito, i cartelloni sullodati. Che in questi giorni di campagna elettorale sono ricomparsi in piazzale Vittorio Veneto, in uno avanzato stato di corrosione elettrochimica (leggi arruginimento) malinconici come i ruderi di una fabbrica abbandonata.

Ora quelle quinte di ferraccio consunto da cui spuntano vecchi manifesti non rimossi, carte incollate così bene da resistere al tempo, simboli sbiaditi e mangiati dagli anni, a volte di competizioni recenti e altre molto indietro nel tempo che si allungano come soldati un po’ stanchi all’ammainabandiera della sera, sono più un simbolo del passato, che una cosa davvero utile. Perché le elezioni, oramai, si vincono su Tiktok.

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