I due voli di Marchione che hanno rivoluzionato Cassino Plant (di A. Porcu)

La prima visita di Sergio Marchionne a Cassino: fatta a sorpresa, all'alba. L'ultima, fatta per presentare Stelvio con Renzi. Nel mezzo, una rivoluzione totale. Fino ad essere lo stabilimento di punta. Cosa può cambiare adesso

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

La prima volta che mise piede nel ‘suo’ stabilimento di Piedimonte San Germano fu di mattina presto. Nessuno lo aspettava, nessuno sapeva del suo arrivo: nemmeno lui stesso. Sergio Marchionne decise di atterrare mentre era in elicottero e da Napoli (o Melfi) stava rientrando a Roma.

Il primo operaio ciociaro che vide fu uno dei collaudatori impegnati di buon ora a girare sulla pista interna per testare la Croma. Gli fece cenno con la mano di fermarsi: il poveretto al volante poco mancò che collassasse. Il neo amministratore delegato si fece accompagnare fino alla guardiola dei sorveglianti. Durante il tragitto chiese ‘Come va?‘ e ‘E la macchina: va bene?‘.

Una volta davanti al responsabile di turno dei vigilanti si presentò “Buongiorno sono Sergio Marchionne, mi può chiamare il direttore per favore?“. La leggenda narra che, non riuscendo a trovarlo al telefono, svegliarono il capo del personale: il quale mandò cordialmente a quel paese il sorvegliante: “Sì Antò, Marchionne sta in stabilimento e io sono Giovanni Agnelli! Dimmi tutto, perché mi hai chiamato?” Ci volle un po’ per convincerlo che non si trattava di uno scherzo. Il dirigente si catapultò in fabbrica bruciando letteralmente l’asfalto.

Quel giorno il manager italo canadese, voluto da Umberto Agnelli per la successione al timone di un’azienda ormai decotta, volle fare un giro per le linee di produzione, salutò alcuni dei dipendenti lungo la catena rassicurandoli “Fiat ce la farà“, chiese di poter vedere gli spogliatoi del personale ed i gabinetti.

Prima di risalire in elicottero e riprendere il viaggio di rientro, al direttore disse «Qui rifaremo tutto. Intanto però cominciamo a rifare i cessi: non possiamo chiedere agli operai di farci auto di qualità e farli vivere in uno stabilimento così degradato».

 

L’ultima volta che Sergio Marchionne ha messo piede nel ‘suo’ stabilimento di Piedimonte San Germano è stato a novembre 2016 e non c’era più un solo mattone di quello che aveva visitato qualche anno prima. Anche il nome era diverso: Fca Cassino Plant.

Anche quest’ultima volta c’era venuto in elicottero. Ma in forma ufficiale: per ricevere il presidente del Consiglio dei Ministri in carica Matteo Renzi. E annunciare l’avvio della produzione di Stelvio e Giulia.

Nel mezzo una rivoluzione. Di pensiero, di tecnologia, di visione del mondo. Una fusione con l’americana Chrysler, il risanamento che nessuno avrebbe mai immaginato fosse possibile. Tanto che pochi giorni prima dell’atterraggio compiuto all’alba su Cassino, mentre strapazzava due uova in una pentola antiaderente poggiata sulla cucina annessa  al suo ufficio al Lingotto, Sergio Marchionne aveva detto all’avvocato Gianluigi Gabetti, presidente della società cassaforte in cui sono custoditi i beni degli Agnelli: «La Fiat è tecnicamente fallita. Non stupirti. In questo momento perdiamo due milioni al giorno. Se fallimento significa non avere i soldi in casa per pagare i debiti, bene, allora noi ci siamo».

 

Non è fallita la Fiat in questi 14 anni di gestione Marchionne. E Cassino Plant è diventato lo stabilimento di punta: quello nel quale nascono i gioiellini che realizzano di più sui mercati, tengono a galla i conti, li fanno virare verso il segno positivo in maniera decisa.

Nel Cassino Plant voluto da Marchionne quel giorno che ordinò di rifare i cessi ora ci sono aree come la Lastratura che impiega oltre 6mila tra robots, sistemi di saldatura e controllo. In verniciatura ‘lavorano’ oltre cento robot. C’è il vero 4.0: le macchine si interfacciano con gli uomini in felpa bianca e rossa, gli operai li aggiornano sulla produzione mandando un messaggio dallo smartwatch che hanno al polso.

Soprattutto c’è una delle principali capitali della rinascita: la sede del segmento premium. E del marchio Alfa Romeo rilanciato con orgoglio sul tavolo da gioco della partita mondiale per il segmento D, quello più ricco.

Cassino Plant oggi è la spina nel fianco dei tedeschi che, non a caso, negli anni bui della crisi, si narra avessero fatto la proposta di rilevarlo. Invece, fino all’arrivo di quel signore in maglioncino sceso dall’elicottero alle 6.30 del mattino, si fabbricavano Stilo, Marea, Tempra… Un’altra storia.

 

Al suo posto ora arriva Michael Manley. Che con Sergio Marchionne ha ben pochi punti di somiglianza. Inglese, dicono che non sia incline agli abbracci, ai sorrisi ed alle pacche sulle spalle che invece Marchionne elargiva in abbondanza durante le sue visite nelle fabbriche.

Il suo arrivo potrebbe voler dire che è più vicino lo scenario anticipato lo scorso aprile da Alessioporcu.it E cioè: l’Europa smetterà di essere ‘interessante’ per l’Automotive quando nel 2020 cesseranno gli effetti dell’Agenda Cars2020 messa a punto da Antonio Tajani quando era ministro europeo dell’Industria.

Soprattutto perché nessuno ha avviato fino ad oggi un dibattito sul futuro del comparto in Europa. Tutti, sbagliando, danno per scontata la sua permanenza.

La nomina di Manley potrebbe significare che è sempre più vicino lo spostamento dell’asse dal teatro europeo a quello Americano e Asiatico. Non è un caso che tra le prime reazioni locali alla nomina, ci sia stata una raffica di messaggi inviata dal segretario generale provinciale Cisl Enrico Coppotelli ai suoi quadri Fim (l’area metalmeccanica del sindacato) per avere informazioni sulla continuità industriale, sulla conferma degli investimenti italiani annunciati appena un mese fa da Marchionne per Cassino.

Perché le strategie dovrebbero cambiare? Perché nel frattempo Donald Trump minaccia di imporre dei diritti doganali del 25% sulle vetture importate. Allora perché continuare a produrre Jeep a Melfi? Perché far produrre a Cassino Plant i nuovi modelli Alfa Romeo e non realizzarli a marchio Alfa nelle linee Chrysler in Usa?

Oggi il 55% delle automobili vendute sul mercato Usa sono costruite in America. Ed un altro quarto della produzione nasce tra Messico e Canada. Le tre big di Detroit (Ford, General Motors e Fca) negli ultimi anni sono state superate dalle produzioni fatte in Usa dalle loro concorrenti straniere che hanno investito miliardi di dollari nel Paese per attivare nuovi stabilimenti.

Il dopo Marchionne potrebbe non essere favorevole. Nè per Cassino Plant, né per l’Italia, né per l’Europa.

La cosa più grave è che nessuno sollevi il dibattito. O forse è normale: da noi ci si pone il problema quando è troppo tardi. Sperando che arrivi un Marchionne a strapazzare due uova in un tegamino di Mirafiori e ad atterrare all’improvviso a Cassino Plant.

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