I nostri carbonari dimenticati

La storia del processo ai 51 carbonari scoperti nei distretti di Sora e Gaeta. Fu un giudizio lampo. Con incarcerati e giustiziati. Molti di loro sono stati dimenticati

Fernando Riccardi

Historia magistra vitae

Nell’aprile del 1823 iniziava il processo contro 51 persone del distretto di Sora. Per il numero degli imputati e la gravità delle contestazioni, oggi si chiamerebbe maxiprocesso. Erano accusate di appartenere alla setta carbonara della “Nuova Riforma di Francia”.

Le indagini erano partite nei primissimi giorni dell’anno come attesta un documento datato 16 gennaio. Lo invia Giuseppe Tamburini, ispettore commissario di polizia nel distretto di Gaeta e Fondi. Il destinatario è il Segretario di Stato ministro della Polizia Generale.

Il rapporto Tamburrini

Riunione Carbonara (Stampa dell’800 – Museo del Risorgimento)

Incomincia a propagarsi una nuova setta sotto il titolo della Nuova Riforma di Francia. In se abbraccia le sette riformate della Massoneria, Carboneria, de’ Greci in solitudine e de’ Patriotti Europei.

Tale riforma si dice emanata dalla Francia da dove nel passato anno vennero spediti circa 700 Emissari per ogni Stato di Europa. Ed in specialità per l’Italia, spiegandosi in su le prime in Bologna, ed in Roma; da Roma si è diffusa su i paesi della frontiera, Frosinone, Ceprano, Pofi, Monte San Giovanni. E quindi nelle Comuni del Regno, Arce, Roccad’arce, Roccasecca, Caprile, Palazzolo, tutti del Distretto di Sora. A San Giovanni Incarico nel Distretto di Gaeta.

Essa ha di oggetto la istituzione di un Governo Repubblicano e per dare la mossa alla Rivoluzione, si aspetta la morte del Papa”.

Gli adepti della “Nuova Riforma di Franciamiravano a rovesciare la monarchia borbonica e ad instaurare nel meridione d’Italia un governo repubblicano. Per dare fuoco alle polveri della “rivoluzione” si doveva attendere la morte del pontefice Pio VII, gravemente malato. E in effetti morì nell’agosto dello stesso anno. 

Tutti i nomi dei carbonari

Arresto di carbonari (Stampa Museo del Risorgimento, Brescia)

Nell’arco di un paio di mesi la solerte polizia borbonica era riuscita ad individuare tutti gli affiliati alla nuova setta carbonara.

Un rapporto delle forze dell’ordine così sintetizzava: “… di tutte le indicate operazioni è stato il buon ordine costantemente mantenuto e la fermezza usata nell’eseguirle ha fatto sullo spirito pubblico una forte impressione, da cui è da sperarne utile risultato”.

Questi i nominativi dei “settari”, raggruppati per paese di appartenenza, con l’indicazione (dove compare) della professione o del ceto sociale. 

Arce (17): Celso Carducci, possidente; don Eleuterio Ciolfi, possidente; don Eleuterio Simonelli, legale, Gaetano Balestrieri, “ferraro”; Pasquale Quattrucci, possidente; Vincenzo Quattrucci, possidente; don Giuseppe Quattrucci, benestante; Giambattista Quattrucci, possidente; Raffaele Quattrucci; Luigi Germani, detto “Zinocchiello” notaio; Antonio Quattrucci, possidente; Rocco Ciolfi; Giambattista Dammasio; Pasquale Calcagni; Luigi Quattrucci; Rocco Compagnone e Gennaro Ciolfi

Isoletta (4): Antonio Sacchetti, possidente; Antonio Senatori, militare doganale; Giuseppe Forte, possidente; Antonio Tancredi

Rocca d’Arce (6): Antonio Ferraiolo, calzolaio; don Luigi Forte, legale; Carlo Ferraiolo; Pietro Belli, possidente; Giuseppe Belli, possidente; Luigi Ferraiolo, falegname. 

Fontana (3): Berardino Patriarcaspeziale”; Cipriano Tirolò, “molinaro”; Luigi Lucchetti, medico. 

Roccasecca (13): don Mariano Coarelli, medico; don Federico Giovinazzi, sacerdote; don Raffaele Giovinazzi, possidente; don Tommaso Giovinazzi, possidente; Benedetto Patamia, “sartore”; Antonio Antonelli, “bracciale”; Alessandro Merolla, calzolaio; Antonio Picozzi, “sartore” e barbiere; Gregorio Panzini, proprietario; Giuseppe Coarelli, possidente; Pietrantonio Staci, “bracciale”; Eugenio Jucci, falegname; Francesco Rossini, “bracciale”. 

Pico (1): don Costanzo Pompei, arciprete. 

San Giovanni Incarico (1): Antonio Rampini, possidente. 

Colle San Magno (1): don Francesco Saverio Frezza, possidente. 

Arpino (1): Biagio Romano, calzolaio. 

Completano il lungo elenco don Polidoro Vincenzo Belardinelli di Gambatesa, in Molise, ex frate domenicano, Vittorio Casciano di cui si ignora la provenienza ed altre due persone delle quali non si conosce il nome, native del comune di Arpino, ma domiciliate a Roma.

Processo lampo

La gendarmeria reale borbonica a piedi nel 1850

Il procedimento a carico degli imputati andò avanti con sorprendente rapidità, niente a che vedere con le lungaggini dei giorni nostri. Nel novembre del 1823 la Commissione Militare della provincia di Terra di Lavoro, riunitasi “nella sala di udienza della Gran Corte Criminale” di Santa Maria di Capua, l’odierna Santa Maria Capua Vetere, emetteva le sentenze.

Dei 51 imputati i più vennero condannati alla detenzione, altri prosciolti, altri ancora sottoposti a supplementi di indagine e, perciò, trattenuti in carcere. La corte emise anche tre condanne alla pena capitale nei confronti del rocchigiano Antonio Ferraioli e dei roccaseccani Raffaele Giovinazzi e Benedetto Patamia, considerati, rispettivamente, il “capo” e i “direttori” della setta eversiva.

Il 25 novembre del 1823, in un freddo martedì, nel largo del Mercato di Santa Maria di Capua, la sentenza venne eseguita. I tre “settari” furono giustiziati con il “laccio sulle forche ossia vennero impiccati. Così descrive l’atroce epilogo Mariano D’Ayala: “Il giorno dopo all’alba, 25 di novembre 1823, il carnefice strozzava in Santa Maria nella piazza del Mercato, dove compravansi gli alimenti della vita, i tre cittadini Giovinazzo, Ferraiolo e Patamia, i cui cadaveri rimasero più e più ore sospesi di riscontro alla casa Morelli-Matarazzo”.

E fu uno spettacolo miserando veder correre scarmigliata e piangente verso il patibolo la madre del Ferraiolo che usciva dalle sue stanze nel vico Freddo”. 

Tutti dimenticati

Con il trascorrere del tempo della trama eversiva messa in atto dai “Nuovi Riformati di Francia” e del tragico epilogo consumatosi sul declinare del 1823, si perse completamente la memoria. Nei paesi d’origine delle vittime, Roccasecca e Rocca d’Arce, almeno fino al 1860, nessuno volle o poté far qualcosa per ricordare la loro sorte.

Poi, con il dissolvimento dello stato borbonico e l’avvento dei Piemontesi nel sud della Penisola, le cose mutarono. Qualcuno si ricordò di ciò che era accaduto qualche decennio prima. La municipalità di Roccasecca dedicò ai due “carbonari” una piazzetta (Benedetto Patamia) e un vicolo (Raffaele Giovinazzi) nel centro storico del paese. L’esempio non fu seguito da Rocca d’Arce: qui, ancora oggi, Antonio Ferraioli continua a rimanere un illustre sconosciuto.

Ma anche lì dove i nomi furono impressi nelle fredde lapidi marmoree, per tantissimo tempo nessuno si è preoccupato di saperne di più: viene da pensare quasi ad una sorta di “damnatio memoriae”, come se rievocare quegli eventi fosse sconveniente o poco dignitoso.

Idee progressiste

Eppure quei tre poveretti avevano sacrificato la loro giovane vita per inseguire un sogno, forse prematuro, forse ingenuo o irrealizzabile, ma non per questo meno nobile. Ammaliati, rapiti, estasiati dalle idee progressiste provenienti d’Oltralpe: inneggianti alla Repubblica, alla libertà, all’uguaglianza e alla fratellanza fra i popoli e i ceti.

Con l’incoscienza tipica di chi aveva appena iniziato a vivere, si erano calati con ardore nell’ingenua trama settaria, incuranti del pericolo, desiderosi, soltanto, di raggiungere il fine ultimo. Ma il loro sacrificio corre il serio rischio di passare del tutto inosservato.

A ricordarli c’è un corposo volume che ricostruisce con dovizia di particolari in 208 pagine la vicenda. Si intitola “Col laccio sulle forche. Raffaele Giovinazzi, Benedetto Patamia e la Nuova Riforma di Francia in alta Terra di Lavoro” (Arte Stampa Editore 2016).  

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