I regolamenti di conti che la crisi ha aperto

Foto: © Imagoeconomica, Paolo Lo Debole

La crisi apre una serie di regolamenti di conti interni ai Partiti. Nella Lega i nordisti criticano Salvini. Nel M5S la rivincita di Lombardi e Fico su Di Maio. In Forza Italia Berlusconi può fare piazza pulita dei Sovranisti: la resurrezione di Letta. E nel Pd...

Un avversario all’esterno, un nemico all’interno. La crisi d’estate che ridisegnerà l’orizzonte politico italiano, trasformerà anche gli equilibri interni. In tutti i Partiti. Determinerà nuove leadership, renderà definitive alcune di quelle attuali. Ne ridimensionerà altre.

I fronti nella Lega

MATTEO SALVINI Foto: © Imagoeconomica, Paolo Lo Debole

Matteo Salvini rischia di essere degradato. E di perdere i galloni di Capitano. Cioè quell’aura di onnipotenza che compete a chi è capace di inanellare un’interminabile serie di vittorie. Fino a conquistare il 40% accreditato dai sondaggi, raggiunto partendo da una Lega ridotta all’insignificanza politica, decimata dagli scandali sui diamanti e sulle lauree al trota, costretta a passare dallo slogan ‘Padroni in casa nostra‘ a ‘Ladroni in casa nostra‘, obbligata a mandare in esilio i suoi padri fondatori da Bossi a Borghezio, da Maroni a Calderoli.

Il Capitano sta provando sulla sua pelle le stigmate del leaderismo: gli uomini soli al comando incendiano le folle, entusiasmano gli animi, vincono tutto e lo vincono in fretta. Ma con altrettanta velocità passano in due elezioni dal 40% al 18%. È il prezzo da pagare quando non si ha un Partito vero, strutturato, che ti fa da muro e ti difende. Ma che devi ascoltare e nel quale devi mediare per primo se vuoi che tutti stiano con te.

Così non è stato nella Lega targata Salvini. O meglio, lo è stato solo fino ad un certo punto. Lo è stato sempre meno, a mano a mano che si passava dalle ramazze alle ruspe, dal 2% al Viminale.

GIANCARLO GIORGETTI Foto: Imagoeconomica, Benvegnu’ Guaitoli

Un esempio chiaro è l’insofferenza di una mente come Giancarlo Giorgetti: non è un leghista all’acqua di rose, con molta probabilità il sottosegretario lo è tanto quanto Matteo Salvini. Ma in più ha una visione politica, una prospettiva di medio e lungo termine, una proiezione economica. Perché una cosa è vincere dai palchi ed altro è amministrare un Paese. Una cosa è far credere di avere un’esercito invincibile dopo una banale passeggiata nel deserto in cui l’unico nemico fu il caldo, cosa ben diversa è fare sul serio: si rischia di svegliarsi all’alba con gli aerosiluranti inglesi a Genova e Taranto.

Giorgetti è stato tra i pochissimi con le spalle talmente larghe e gli attributi talmente grossi da criticare le mosse del Capitano. Lo ha fatto in silenzio e con giudizio. Fino al momento finale. In cui ha detto, nei giorni scorsi, «La decisione di aprire la crisi è stata solo la sua».

Se andrà male e la Lega finirà all’opposizione, Salvini rischia di finire nel Pantheon insieme a Bossi e gli altri. O di restare al comando di un Partito nel quale in tanti a quel punto gli contesteranno d’averli lasciati in braghe di tela da un giorno all’altro, passando da una segreteria di 30 persone più autista ad un solo portaborse.

Più che un bagno di umiltà potrebbe essere un sano bagno di ritorno alle origini nel dio Po. E non è detto che sia un male.

I fronti nel M5S

Luigi Di Maio

Luigi Di Maio venne catapultato dai seggiolini dello stadio San Paolo di Napoli a Palazzo Chigi grazie ad un’attenta selezione fatta dalla società di Strategie della Persuasione Casaleggio & Associati. Un brand selezionato a tavolino. Senza alcun consenso personale alle spalle, senza alcun merito politico tale da giustificare la sua designazione a leader. Semplicemente: parlava bene, si divincolava in fretta se messo sotto attacco, aveva l’immagine del bravo figlio, non era né di destra né di sinistra. Un prodotto.

Accanto al quale Casaleggio Sr. ebbe la geniale intuizione di metterne altri ma d’ispirazione diversa: uno più sinistroide chiamato Roberto Fico, uno più destrorso chiamato Alessandro Di Battista. Da estrarre all’occorrenza in caso di fallimento del primo Prodotto.

In questa sovrapproduzione, approfittando delle spaccature che si aprono nei momenti di difficoltà, si è saputo insinuare in maniera geniale e brillante il segretario nazionale del Partito Democratico Nicola Zingaretti. Senza lasciare tracce. Ma lasciando lavorare i suoi commandos, chiamati Daniele Leodori (vice presidente della Giunta nel Lazio e governatore supplente), Albino Ruberti (direttore generale operativo di lungo corso politico), Mauro Buschini (presidente del Consiglio del Lazio, abilissimo uomo di manovra, tattico efficace nel realizzare accordi lampo).

Roberta Lombardi

Sono stati loro a costruire la linea di dialogo che si sta rivelando determinante per la soluzione della più pazza crisi politica nella storia della II Repubblica. Perché le loro incursioni hanno raggiunto il quartier generale di Roberta Lombardi, capogruppo M5S in Regione Lazio, dov’è stata confinata da Luigi Di Maio che l’ha voluta fuori da Montecitorio, proprio lei che ebbe il compito di massacrare Pier Luigi Bersani in diretta streaming.

Il dialogo con l’ala più politica, sinistrorsa, dura e pura ma con senso dello Stato nel 5 Stelle, sta producendo un cambio di equilibrio interno ai 5 Stelle. Esattamente come previsto da Casaleggio Sr. in caso di crisi. Lo dimostra quanto avvenuto nel lungo e drammatico vertice a casa di Beppe Grillo a Bibbona in Toscana, nel quale è stata decisa la posizione da assumere. La serietà e la fermezza politica avute da Zingaretti sono state il suo migliore biglietto da visita. Un punto fermo c’è stato a Bibbona: si tratta con Nicola Zingaretti, non con Matteo Renzi. Concetto riassunto da Di Battista dicendo: “Non so chi è peggio tra Renzi e Salvini”.

La ragion di stato imporrà di non rispedire Luigi Di Maio sugli spalti del San Paolo. Ma uno dei temi di confronto sarà o la riduzione ai minimi termini del suo ruolo, con un ministero senza portafogli tanto per salvare la faccia; oppure salterà un giro.

Beppe Grillo

E saliranno alla ribalta Roberta Lombardi con Roberto Fico e tutta l’ala rimasta pulita dallo sdoganamento dei ‘barbari leghisti‘ portati al governo grazie al contratti con il M5S. Gli umici in grado di trattare la road map di un governo di legislatura nel quale sia presente il Pd. E che per forza di cose dovrà: cancellare gli aspetti più iniqui del Decreto Sicurezza, correggere la follia del Reddito di Cittadinanza riportandolo al Reddito di Inclusione che esisteva già ai tempi di Gentiloni, avviare riforme strutturali che tra le altre cose riducano il numero dei Parlamentari.

I fronti in Forza Italia

Berlusconi e Letta

Immortale Silvio Berlusconi. Nei giorni scorsi il senatore Claudio Fazzone, fedelissimo coordinatore nel Lazio aveva avvertito: “Preparatevi al suo ritorno: ogni volta che viene dato per spacciato è il momento in cui risorge“. Così è stato. Ora si è liberato dell’ala filoleghista, costringendola ad uscire allo scoperto e costituirsi in movimento con Giovanni Toti.

L’eterno Gianni Letta è tornato al centro delle trattative dopo esserne stato estromesso un paio di anni fa, all’epoca dell’alleanza con la Lega. Letta fu un altro profeta: di fronte all’accordo che si stava sottoscrivendo due anni fa con Lega e Fratelli d’Italia avvertì il Cav. “Così si salvinizzerà Forza Italia“. E così è accaduto.

Ora l’eminenza azzurra di Forza Italia sta lavorando ad un assetto più centrista del Partito: pronto a partecipare ad un eventuale governo di salute pubblica. Capace di evitare l’aumento dell’Iva e dare finalmente le risposte che il mondo industriale del Nord sta invocando.

I Totiani? Stanno a guardare.

Non a caso, i più tiepidi stanno alla finestra. Sul telefono del vice coordinatore del Lazio Gianluca Quadrini sono arrivate diverse chiamate. E lo stesso gruppo dei fondatori laziali (i consiglieri regionali Aurigemma, Palozzi, Ciacciarelli e l’ex presidente del consiglio regionale Mario Abbruzzese) segue l’evoluzione della crisi. Che potrebbe ucciderli nella culla.

I fronti nel Pd

Inutile perdere tempo. Ha già scritto tutto padre Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della Pazzia. Il Pd non è mai diventato un Partito, nulla a che vedere con i Ds o i Popolari. Ma non ha scampo: se perde l’unità è destinato all’irrilevanza politica.

Nicola Zingaretti: © Imagoeconomica, Alessia Mastropietro

Carlo Calenda, Matteo Renzi, Nicola Zingaretti, sono espressioni di un Partito che solo la struttura politica dell’attuale Segretario può riuscire a tenere insieme. Zingaretti vuole un Partito che abbia tante voci, differenti tra loro, tra le quali fare la sintesi.

Matteo Renzi sta stretto in un contesto simile, tanto quanto un solista di primissimo livello starebbe scomodo nel coro dell’Armata Rossa. Il solista non ama stare in pattuglia, intorno accetta solo gregari. E questa è l’antitesi del Pd.

Renzi non è sciocco. Nemmeno un po’. Se ne andrà solo se non avrà alternative. Continuerà a far credere di volerlo fare, puntando al momento di dividersi le candidature affinché gli lascino lo spazio di sopravvivenza e non lo massacrino come lui fece agli avversari. Ma non ha alternativa: è il primo a sapere che in caso di spaccatura si genererebbero due debolezze. Obbligate, oltretutto, a convivere: senza un patto di desistenza sui territori verrebbero avvantaggiati i comuni avversari.

Ora però c’è la crisi. Questa è materia per dopo. E sia Renzi che Zingaretti e Calenda lo hanno capito. Puntano contro l’avversario esterno, per ora. Poi ci sarà tempo per il nemico interno.