Il 20 settembre di 152 anni fa: a Porta Pia diventammo italiani

La breccia di Porta Pia, Roma diventa Capitale dell'Italia unita. Due punti di vista. Tratteggiati da due penne diverse e di orientamento del tutto opposto. Perché la Storia mai ha una sola sensibilità

La breccia di Porta Pia, Roma diventa Capitale dell’Italia unita. Due punti di vista. Tratteggiati da due penne diverse e di orientamento del tutto opposto. Perché la Storia mai ha una sola sensibilità.

di Lidano Grassucci

Oggi, un oggi di 152 anni fa, qui in questa mia terra dei Lepini tornammo ad essere “umani liberi” e smettemmo d’essere “cristiani per forza“. Oggi, un oggi di 152 anni fa, ci facemmo italiani e non pii devoti. Lo facemmo grazie a Giuseppe Mazzini, in ricordo di Armellini e Saffi, della sacra repubblica in Roma libera e non eternamente pregante.

Non dovevamo più genufletterci, non dovevamo più fare finta di credere ma potevamo credere in quel che che ciascuno pensava fosse giusto.

La libertà a colpi di cannone
“La breccia di Porta Pia” di Carel Max Quaedvlieg – Collezione Apolloni

La libertà ha bisogno del cannone. Noi sparammo non a salve a Porta Pia: il fragore si sentì in tutto il mondo. Da lì, di corsa, ragazzi di Piemonte entrarono da italiani a salvare italiani. Certo c’erano più pecore che umani, più sottane che stivali, più ruderi che case e quello che avanzava erano chierichetti. Oggi, un oggi di 152 anni fa, la mia terrà dei Lepini torno a questa terra dall’inferno che era.

Era Nostro Signore il possessore degli abiti che indossava in punto di morte? Il Papa si fece Re dicendo che era “nel suo possesso“. I poverelli di Assisi sentivano che non era proprietà ma uso, mille eresie nel mondo pensavano lo stesso.

Ci liberarono ragazzi di ogni posto, di questo posto che era Italia. E ci vennero a salvare, dal nostro troppo pregare.

Dopo tempo e tempo un Papa si fa chiamare Francesco, come quello che guidava i fratelli che “non avevano neanche il possesso degli abiti“. Per fortuna sono italiano.

di Alberto Fraja

Foto di Ludovico Tuminello (1824-1907)

Il racconto della nascita di uno Stato somiglia, non di rado, a un fonte battesimale. Dentro il quale si mescolano eroismo vero e balle colossali; apologetica di quart’ordine, riferimenti mitici farlocchi; ed ettolitri di retorica.

La presa della Bastiglia, per dire: punto di svolta e rappresentazione iconica della Rivoluzione Francese. La vulgata narra dell’assalto armato del popolo alla fortezza onde liberarla delle centinaia di prigionieri vittime dell’odiato assolutismo monarchico. Peccato che quando i sans-culottes irruppero in quel “lugubre luogo di pena” vi trovarono a marcire quattro falsificatori di moneta che se la diedero subito a gambe. Due pazzi pericolosi che, scambiati per “filosofi” e, dunque acclamati sulle prime come “vittime della repressione“, furono rinchiusi, chiarito l’equivoco, in un manicomio. Un maniaco sessuale messo dietro le sbarre per richiesta della sua stessa famiglia. 

La retorica di Porta Pia
“I Bersaglieri a Porta Pia” di Michele Cammarano, Museo di Capodimonte (Napoli)

Stesso ragionamento andrebbe fatto per la presa di Roma di cui oggi ricorre il 152esimo anniversario. A tale proposito può correrci in soccorso uno degli scritti più felici di Claudio FracassiLa breccia di Roma” (Mursia, 318 pagine 18 euro).

Il libro rimette i tasselli del vero nel loro giusto alveo. Lo fa destrutturando, attraverso una ricostruzione fondata sui fatti, la retorica sulla eroica conquista della Capitale come compimento dell’unità nazionale.

In realtà quello del 20 settembre del 1870 fu il classico scontro armato “all’italiana”. Più comico che tragico. Con tutto il rispetto per chi ci lasciò la ghirba: 49 morti nell’esercito piemontese, 20 in quello pontificio; tra loro c’era l’artigliere Giuseppe Valenti di Ferentino. (Leggi qui: L’Unità d’Italia è diversa se la vedi da Ferentino).

La Breccia di Porta Pia fu un evento contraddittorio, a molte facce, alcune delle quali addirittura farsesche” scrive Fracassi. “L’impresa non fu una grande guerra vittoriosa come spesso è stata descritta, né una rivoluzione ma uno scontro sostanzialmente locale, durato, nella sua fase più cruenta, meno di un’ora”.

I dubbi dei bersaglieri
Gli artiglieri pontifici

A proposito di farsa. In principio fu il sottotenente Federico Cocito, del 12° Bersaglieri. Il quale, dopo essersi arrampicato agilmente sui massi abbattuti dai colpi di cannone, fu assalito da un dubbio atroce: quelle mura erano davvero le mura di Roma? Il sospetto lo colse quando, aldilà della cinta, non vide neanche l’ombra di una colonna o arco dell’Urbe antica, né uno straccio di cupola barocca ma soli orti e vigne.

Ogni dubbio fu fugato quando avvistò il chiostro benedettino adiacente alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, costruita dentro le Terme di Diocleziano, il Convento dei Carmelitani di Santa Maria della Vittoria, e poco oltre a destra sul declivio del Quirinale (allora residenza del Papa Re), il Convento dei Frati Cappuccini (aveva studiato storia dell’arte in Accademia). Ora poteva dirsi sicuro che effettivamente quella era la città fondata da Romolo e i bersaglieri potevano finalmente penetrarvi a piè veloce.

Peccato che a sostenere l’avanzata dei fanti piumati fu un bombardamento dissennato. Gli italiani sparavano a casaccio tanto che i feriti sabaudi della famosa carica risultarono essere il frutto del cosiddetto fuoco amico casuale che, oltre ad abbattere i bersaglieri, li espose al calpestio dei loro compagni intenti a conquistare Roma di corsa.

Spararono tre ore per abbattere il muro di Porta Pia: dalla 5.30 alle 8.30 del mattino. L’artiglieria piemontese esplose 888 colpi ma proseguì con i tiri per un’altra ora abbondante: fino alle 9.45. Cessò il tiro quando un tricolore venne esposto dalla torretta di Villa Patrizi a segnalare che Roma era presa.

Quasi uno spettacolo
Porta Pia a Roma oggi

Tra i testimoni della presa c’è il giovane ufficiale piemontese Edmondo De Amicis, divenuto immortale scrivendo il libro Cuore. Annotò quel giorno: “La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa”. 

Nel frattempo il popolo, dall’alto dei bastioni delle Aureliane si godeva la pugna con la stessa curiosità di una comitiva di fronte ai falsi centurioni del Pantheon. Addirittura, saputo del dilagare nel Lazio dell’esercito comandato dal generale Raffaele Cadorna, alcuni cittadini della Sabina vollero aggregarvisi per non perdersi lo spettacolo. Ci vollero le maniere forti per tenerli lontani da cannoni e salmerie in marcia.

E i papalini? Come si erano preparati per la difesa? Rafforzando le Mura Aureliane con materassi appesi ai merli. Non solo. Quando fu suonata la carica e la calca indescrivibile di soldati italiani si avventò sulle postazioni nemiche, Pio IX diede ordine di cessare il fuoco e di issare bandiera bianca. Peccato che non di una bandiera bianca si trattasse ma di una mutanda.

Fra gli errori, i tentennamenti vaticani e i malintesi di quelle ore ci fu anche la mancanza della consegna preventiva al tenente Carletti di una bandiera bianca da esporre sulla cupola di San Pietro” racconta Fracassi. “Alle ore 10 il poveretto, dopo aver ricevuto dai superiori l’imperativo ordine scritto, ne cercò disperatamente (e invano) una; poi spedì alla ricerca del drappo un “sanpietrino” che tornò dall’ufficiale con in mano una braga”.

Il salto sul carro del vincitore cominciò a manifestarsi ancor prima che le bocche di fuoco tacessero. Narra una cronaca di quei giorni puntualmente riportata dall’autore: “A Piazza Colonna era stato messo in esecuzione il primo atto di opportunismo insieme patriottico e commerciale. Il proprietario del bar all’angolo tra la piazza e Via del Corso aveva smontato la vecchia insegna e piantato la nuova, visibile anche da lontano: “Caffè Cavour“.