Il binocolo di Antonino per guardare l’inferno a Capaci

C'era un uomo con il binocolo sulla collina dalla quale venne aperto l'inferno sotto l'asfalto di Capaci. E non era un mafioso come tutti gli altri.

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il primo pomeriggio del 23 maggio del 1992 su una mezza collinetta pelata di erba gialla del Palermitano c’erano uomini ed erano tutti nervosi e sudati. Quasi tutti, a dire il vero, uno di loro aveva le pelle secca dei freddi di natura. I fratelli Ganci, quelli della Noce, il quartiere che “Zu Totò” teneva nel cuore, sembravano cavallette scattiste e facevano la spola fra Punta Raisi e la dorsale della collina con l’auto. Salvatore Cancemi parlava a voce troppo alta e per la tredicesima volta aveva detto a “U Verru” che forse bisognava controllare un’ultima volta tutto, poi si girava e lo ripeteva a Biondino che bestemmiava a alzava lo sguardo al cielo.

Giovanni Brusca poi sembrava il più allocchito di tutti: da massacratore seriale e noncurante sembrava essere diventato un chierico unto che aveva fatto trovare il sagrato sporco al vescovo. Se ne stava imbambolato, seduto su una pietra a guardare un orizzonte che vedeva solo lui e a toccarsi la barba oleosa. Di tutti loro solo uno aveva palesemente il sangue diaccio dei rettili: Antonino Gioè non aveva detto una parola da quando tutto era cominciato: non aveva sudato, non aveva chiesto recap e si era mosso il minimo indispensabile e solo per fare cose mirate, senza dispendio inutile di energia.

Antonino, l’uomo del binocolo

L’area dell’attentato (e Antonino Gioè)

Lui aveva il compito più importante di tutti: Antonino era quello del binocolo, quello che doveva calcolare la velocità di marcia ed equalizzarla con l’input elettrico sparato dritto in pancia a mezza tonnellata di Sentex e Tnt. Con lo strumento ottico appeso al collo sembrava a suo agio come un Livingstone dell’orrore e i ricci neri e corti impuniti senza alone all’attaccatura della fronte. Sì, in un giorno in cui vicino Capaci tutti puzzavano quel mafioso profumava della compiutezza agghiacciante della sua missione.

Anni dopo, al processo di Caltanissetta e con Gioè già seppellito, Giovanni Brusca la rese bene ai giudici, quell’atmosfera: “Io, Biondino e Battaglia ci dirigiamo sulla collina, gli altri escono pure, vanno ad azionare la ricevente che si trovava nei pressi dell’autostrada, e subito dopo La Barbera va verso l’aeroporto, mentre Gioè ci raggiunge e ci dà l’ok che è tutto a posto. Subito dopo si mette al cannocchiale, mentre io ho già in mano il telecomando”. Ecco, in un verbale passato tra i cento faldoni di quel processo “U Verru” lo specificò bene, che “Gioè era quello che doveva dire di premere il pulsante e non era nervoso”.

La verità non processuale

I resti dell’auto di scorta Quarto Savona 15

Perché l’uomo che stava per far aprire l’Inferno sotto a Giovanni Falcone, a sua moglie ed alla sua scorta, era così noncurante del suo ruolo? Era davvero tutto solo così banalmente riconducibile alle nuances di indole oppure ad una mafia stragista che con i macelli ed il sangue aveva già fatto il callo etico dei mostri? No, dirlo oggi e dirlo forte equivale ad affermare una verità non processuale che mette polpa alla storia dei nostri orrori perché non rifugge dalle cose scomode.

L’ordine di ammazzare Falcone trovò tre ali di coppole storte fra i viddani di Riina: quelle che lo ricevettero con gioia ma che non dovevano compiere l’opera, quelle che lo dovevano eseguire e che lo fecero con difficoltosa ubbidienza e quelle che semplicemente ubbidirono. Ed eseguirono.

E se Giovanni Brusca, il mostro per antonomasia nella mistica media di quegli anni, il carceriere di Giuseppe di Matteo, ad ammazzare Falcone ci andò sudato e nervoso, Antonino Gioè a fare l’inferno in terra ci andò come si andrebbe al compleanno del nipote.

Chi era l’uomo del binocolo

Il contachilometri della Quarto Savona 15 (Foto Benvegnu’ Guaitoli © Imagoeconomica)

Chi fosse davvero Antonino Gioè, l’uomo del binocolo a Capaci, lo avrebbe raccontato l’agente di Polizia Penitenziaria Antonio Ciliegio al Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel 2019.

Il mafioso nel frattempo si era “ammazzato” a Rebibbia il 28 luglio del 1993 e pochi giorni prima aveva chiesto l’applicazione di un “protocollo farfalla”. Cos’era? La possibilità di parlare con i giudici o altri soggetti senza farlo sapere all’organico del carcere. “Il detenuto, informato della presenza dell’avvocato, veniva accompagnato alla sala colloqui dove, secondo accordi diretti che passavano dalla direzione o dal capo delle guardie, bypassando noi addetti alla vigilanza, il detenuto teneva gli incontri riservati con le forze dell’ordine o con i servizi, senza che sui registri venisse annotata alcuna precisazione. Quindi senza lasciare traccia dell’avvenuto incontro“.

Gioè non fece in tempo a dire la sua alle persone con cui voleva parlare perché venne trovato impiccato in cella. Solo che il segno dei lacci delle scarpe che non doveva avere tiravano verso il basso invece che verso l’alto, come se qualcuno, non certo una grata più in alto del collo, avesse strattonato con forza con l’uomo a terra. E che aveva anche una costola rotta, roba che di solito chi si impicca non mette nel novero delle cose che possono succedere. Il sospetto che il mafioso potesse essere stato “suicidato” non è mai arrivato a meta procedurale, ma Gioè era uno scrigno troppo grosso da aprire.

L’ex parà

La Fiat Croma bianca del giudice Giovanni falcone e della sua scorta Foto © Alessia Mastropietro / Imagoeconomica

Ex paracadutista presso la caserma Vannucchi del primo battaglione Carabinieri, era stato definito in foglio matricolare come “soggetto in grado di svolgere operazioni di intelligence militare“. Da mafioso utile piaceva a qualcuno, Gioè, e poteva essere funzionale ad un ruolo che non fosse solo operativo ed organico a Cosa Nostra. Da carcerato non piacque più perché giravano voci di un suo ravvedimento. Solo che quando stava per pentirsi incontrò il rimorso o qualcuno glielo fece incontrare e finì tutto. Perciò di cosa mosse quell’uomo freddo con il binocolo a tracolla sulla collina di Capaci il 23 maggio del 1992 non se ne seppe più nulla.

E quando su quelle lenti comparve il riflesso rosso del tritolo assassino che oggi in troppi hanno in calendario retorico tutti risero: chi di sollievo, chi di gioia bestiale e chi pregustando una granita fredda, magari offerta da quel mattacchione di Antonino Calderone che teneva sempre qualche spicciolo nel cruscotto dell’auto con cui faceva da autista a “Zu’ Totò”.

Solo Gioè non rise. Si tolse il binocolo dal collo, si ravvivò i ricci neri e corti e si avviò verso l’auto. Aveva delle telefonate da fare.

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