La casa di Elvira (Il caffè di Monia)

I pensieri del mattino di fronte ad un caffé: non sai mai se sarà dolce o amaro, ristretto o lungo. Come la vita: non sai mai cosa ti riserva

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

Visto da quel punto il paese era una cresta di risacca che finiva dentro la collina. Elvira se ne stava sempre li, percorreva quei vicoli quasi venti volte al giorno. Arrivava fino in cima. La gente gli diceva: “Che ci vai a fare, che sarà cambiato mai da ieri?“. Ma le cose cambiano eccome. Elvira sentiva leggere le rughe degli anni. Non ho capito mai se fosse straniera o se in quei vicoli, come me, c’era nata.

Il fazzoletto in testa per ripararsi dal sole d’estate e dal freddo d’inverno, diceva lei. Io non ci ho mai creduto e ho sempre pensato che volesse così stringere i ricordi per non farli fuggire. Elvira aveva sempre l’espressione delle mamme d’Africa che quando è il momento si accasciano e partoriscono per terra. Come una sfinge faceva finta di non vedere niente e nessuno. Ma le cose se ne accorgevano e quando passava la riconoscevano, sapendo bene che non bastava un paio di occhiali a nascondere lo sguardo.

Il giro tra i vicoli durava poco. Il tempo di contabilizzare le distanze e vedere se era tutto a posto. Ogni volta finiva sulla sedia di paglia che si portava sempre dietro, con lo schienale illuminato dall’inchiostro delle lumache. Gli abitanti del vicolo, quando la vedevano fissare i muri, la salutavano gentilmente. Anche i cani dietro i cancelli avevano smesso di abbaiare.

Le case che fIssava Elvira erano case in coro, raccolte nella rinuncia ferma dei colori. Sembravano sorte direttamente dalla pietra, fatte della stessa fibra del selciato. Colori a voci bassE che avevano sempre un po’ paura del tempo che cambiava all’improvviso. Elvira se ne stava li, con la sedia di paglia, stanca nel peso e negli anni.

Elvira aveva dato poco e ricevuto ancora meno. Diceva di avere un figlio che nessuno aveva mai visto. Le giornate di Elvira erano fatte di silenzi, poiane e gatti che strusciavano alla pietra. Maestà selvatica di erbe zingare sui muri. Se ne stava così Elvira, tra le piccole case abbandonate che nessuno avrebbe più abitato, vuote e impercettibili, come riassorbite dal tempo. I suoi luoghi erano come lei,  nati e morti come gli insetti, come i sassi, senza testimoni.

La sera se ne tornava a casa, una casa piccola dove tutto era sospeso. Lì ad attenderla i suoi oggetti rimasti devoti, al loro posto. I muri avevano il  grigio calmo e severo delle cose che non tornano, il tavolo fibroso come le ossa di chi lo abitava. Sui muri calendari scaduti, un piccolo altare pieno di santi, madonne e prece. Di fianco un casolare. I solai con le gambe spezzate, cataste di vecchie mattonelle come mucchi di scarpe in guerra, la manopola di porcellana rimasta attaccata al muro, i cocci di un piatto.

Elvira diceva che quello era il laboratorio della buonanima del povero marito. C’erano forbici arrugginite e un paio di scarponi seccati come carcasse. Erano li immobili, Elvira non aveva mai informato quelle cose che chi le usava non sarebbe tornato. Quando Elvira tornava a casa pensava a voce alta a tutte le azioni che avrebbe voluto fare. Ma si stancava presto. La sua mente era una stanza piena di oggetti stipati alla rinfusa, che pure avrebbero lasciato muri sgombri e posto per cose nuove, se solo avesse avuto in passato la forza di riassettare.

Ma le cose non aspettano comandi e si affidano al tempo misterioso e sempre esatto del loro accadere. Quello che più le piaceva era pulire e cucinare. Cucinare soprattutto. Le pareva un atto d’amore grande e generoso. Fidanzare i cibi, inventare tra loro matrimoni non meno improbabili di quelli tra persone. E poi sistemare dieci e dieci volte un asciugamano piegato male, la spazzatura da eliminare, le stoviglie da pulire.

Se c’era sporco da togliere voleva dire che da li qualcuno era passato, lasciando un nodo di polvere e capelli, un bottone caduto, un odore vago e conosciuto. Ma nella casa di Elvira non c’era mai disordine, non mancavano cibi nella dispensa perché nessuno li consumava.

Vedo oggi, dopo tanti anni la casa di Elvira; una forma grigia arruffata tra gli alberi, così piccola da non credere che un tempo possa averci abitato qualcuno. Sul muro una scritta bianca a spray: “Io ti amo ogni giorno tu amami almeno fino a domani”.

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