Il compleanno dell’orrore e la lunga vita della guerra in Ucraina

Un anno di guerra in Ucraina. Nata anche perché nessuno comprese cosa fosse la dottrina Gerasimov. Proseguita perché in questo momento storico l'Europa ha i leader più evanescenti. E perché troppi all'inizio pensarono alle macerie come affare per ricostruire

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Noi avevamo il diritto di non aspettarcelo, qualcun altro aveva il dovere di saperlo. Saperlo ed agire. Ma ormai è tardi per recriminare perché la guerra in Ucraina sta per spegnere la sua prima candelina e l’orrore puro soffierà su una torta fatta di sangue e cecità.

È torta multistrato fatta con ingredienti diversi. Perché il sangue è l’effetto e la cecità è la causa. Il peccato originale della guerra non è solo la sua sostanza ontologica o il terribile film delle sue cento epifanie. No: il vero peccato originale della guerra sta nel fatto che fermarla diventa atto delegato alle volontà sghembe di chi non la vede mai in purezza come sfregio all’umanità. Ma arriva a centellinarla come occasione per riformare o rivoluzionare la sua casella di interesse geopolitico.

Leader di cartone

Photo © Palinchak

In una parola le guerre non le fermi se non a spinta propulsiva esaurita intestandotene poi fiero lo stop.

Non lo fai perché per fermarle ci vorrebbe il peso specifico di nazioni in grado di piombare un piatto della bilancia e di usare questo potenziale come deterrente, non come miccia. Potenza ed atto sono nei libri da millenni ma da decenni ormai stanze dei bottoni e lettura sono anch’esse in guerra. E le prime sono sempre più stanze dei bottini.

Poco importa poi se nelle more dell’arrivo di quell’esaurimento possano esserci grandi orrori o caselle di upgrade che con nazioni armate di nucleare rischiano di cancellare un terzo di mondo: chi ci crede più ai fungoni che spuntano all’orizzonte ad annunciarti che hai finito di sopportare la suocera? È una cosa sottile che richiede la carta velina di menti illuminate che oggi non vediamo al lavoro sulla Terra. E non è un peccato dire che se oggi in Europa c’è ancora la guerra a distanza di un anno è perché il contrasto al suo arrivo è affidato alla classe dirigente planetaria forse più debole e meschina degli ultimi 50 anni.

Non serve un elenco, prenderebbe spazio inutile. Perché ognuno di noi, sia pur solo in tacca di mira mainstream, ha ben presenti i volti, le scelte e le azioni di quanti oggi sono alla cloche del mondo. Il 65% di loro farebbe danno anche come amministratore di condominio, il 25% è neutro e il 10% vede meglio degli altri ma non ha skill da statista, solo da politico terragno. Roba bastevole all’ordinaria amministrazione di una mediocre quotidianità di pace, del tutto inutile però a gestire una crisi mondiale di questa portata. (Leggi qui: Il puzzle della guerra che non vediamo).

Nessuno ascoltò Gerasimov

Il generale Valery Gerasimov

E siccome in geopolitica a capo scarso sono sempre corrisposti quadri scarsissimi nessuno, fra quelli delegati all’affaccio spione, ha voluto lavorare prima perché questo sconcio non succedesse.

Come? Mettendo in spunta la dottrina Gerasimov per esempio. Quella particolare concezione cioè con cui, secondo il maggior generale stratega-eminenza grigia di Vladimir Putin che non ebbe mai la pretesa di farla diventare dogma programmatico, spiegò due anni fa che la Russia doveva fare come gli Usa. Quando Gerasimov disse queste cose in un’accademia militare russa in platea, fra la terza e la quinta fila, c’era una fungaia di barbe finte con gli uomini dei servizi di mezzo pianeta.

Cosa proponeva di fare Gerasimov? Creare una zona cuscinetto dove la Nato non potesse scarrocciare in cortili troppo vicini alla finestra di Mosca. E fare nido violento ma legittimista dove c’erano popolazioni native in enclave da affrancare. Come? Usando il movente della loro redenzione per prendere a ditate negli occhi l’Occidente invasivo, come aveva fatto Zio Sam con le primavere arabe e con la Libia.

Il fine? Essenziale: mettere tanti chilometri fra dove comanda la Nato e dove impera la Russia ed allargare la zona grigia dove guardarsi in cagnesco avrebbe sostanziato un nuovo equilibrio orfano della Guerra Fredda.

L’avvio della guerra in Ucraina

Foto: Marco Cremonesi © Imagoeconomica

Ecco, qualcuno allora fu cieco ma saccente. E chiamò con piglio “studiato” quel pensiero sciolto e non programmatico “dottrina”. Si prese il compiaciuti “bravo” delle platee tecniche, venne ignorato dai media che vogliono solo cretini embedded a raccontare contriti e fregiati di polvere quanto facciano male le bombe. E tuttavia non ne trasse conseguenze.

Conseguenze da suggerire poi a chi nel frattempo era stato spinto dalle dinamiche democratiche a fare il capoccia di turno. Il risultato? Un anno esatto fa, a quest’ora, quattro divisioni meccanizzate che due giorni prima erano arretrate solo per gettare fumo negli occhi del satelliti, usarono quell’effetto fionda per catapultarsi in Ucraina ed avviare l’orrore.

E fu Bucha, e fu Irpin, e furono morti, stupri, crolli, sangue, paura. Ssfollati ed esodo. E tanta, troppa tv del dolore. Perché il pianto di una madre è la calamita più forte dell’universo per chi la mamma ce l’ha di fianco in poltrona ad urlare che vuole vedere la D’Urso. (Leggi qui: Gli orchi in fuga sul trenino dei sogni).

Quelli ed una rivoluzione che da allora ha capovolto ogni prospettiva socio economica in tutto il mondo occidentale, ne ha guidato ogni usta politica ed è arrivata a fare il nido non solo nelle coscienze critiche dei cittadini ma perfino nella loro quotidianità.

La nostra callosa assuefazione

Foto © Dmytro ‘Orest’ Kozatsky / Battaglione Azov

Oggi, per callosa assuefazione etica, noi consideriamo la guerra in Ucraina come uno stato di fatto. E l’orrore è arretrato rispetto ad una cosa abbastanza cretina da irretire tutto il nostro interesse: la dialettica sulla opportunità di fomentarla nel nome di una pace che può arrivare solo dalla risposta del Paese aggredito. O di una superpace. Che però lascerebbe campo libero alla fame territoriale di un tiranno fatto e finito, ex amico di tutti ed oggi nemico di ognuno che sia dabbene.

E non è stata mai una dialettica genuinamente protesa agli scenari più idonei per la cessazione del conflitto. Con una spinta diplomatica decisiva. No: è diventata la cartina tornasole per testare gli umori politici interni degli Stati che compartecipano a questo banchetto di ovvietà.

In Italia la guerra è la cifra del peso specifico su Ipsos di Giuseppe Conte, o dei dolori di Enrico Letta, della bravura funambola di Giorgia Meloni o della geopolitica-dildo e tripolare di Silvio Berlusconi.

La macelleria Ucraina sotto casa

Foto © Dmytro ‘Orest’ Kozatsky / Battaglione Azov

Per un miracolo orribile che non abbiamo avuto il tempo di capire la guerra in Ucraina non è stata più solo motivo di colpa ma è diventata movente di analisi, pennello accessorio per disegnare lo stato di una nazione, giocattolo da paniere Istat per capire chi ha vinto e chi ha perso nel gradimento dei cittadini. Come piccoli frames su episodi che non hanno nulla a che vedere con la globale e suprema volontà di mettere fine a quella macelleria così vicina che le urla ci arrivano in casa.

Ma noi le urla non le sentiamo più e nessuno ci ha mai spiegato chi cacchio fosse Valerij Gerasimov. Non aveva gradimento Seo e la ricerca Google non lo classificava come clickbait per allocchire il lettore medio con il pop-up dell’inserzionista. Che vuoi, porello, sarà pure una guerra ma qui si deve campare.

Noi avevamo Sanremo da digerire e lei, la Mostra, sta soffiando sulla sua prima candelina e se la ride. Perché metà di noi le fa gli auguri pregustando la ricostruzione di dove è passata e l’altra metà sta girata di spalle. A cercare Fedez su Google.

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