Il Piave mormorò ma qualcuno gli mise la sordina

Sono questi i giorni della Canzone del Piave. Ma pochi sanno che doveva diventare il nostro inno nazionale. Ma ci fu chi disse no e spianò la strada all'inno di Mameli

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Fu Ermete Giovanni Gaeta, uno “stornellaro” napoletano di gran fama e poeta dalle nuances liricheggianti e a volte epico patriottarde, a comporre la Canzone del Piave, quella del 24 maggio che mormorava, per capirci. Gaeta la compose dopo, molto dopo, nel giugno del ’18 e lo fece con i “crucchi” ormai avviati alla sconfitta. E quella canzone pare piacque da subito tantissimo. Era una di quelle robe militareggianti e con un tal tocco di inesorabilità che non poteva non piacere ad un popolo che era più abituato a prenderle che a darle. Popolo che era reduce peraltro da un arretramento del fronte di 30 chilometri. Andammo indietro come gamberi e prima della gloria a Vittorio Veneto fu lo scorno.

Dopo Caporetto e le legnate che un giovanissimo capitano Rommel ci aveva dato serviva qualcosa di galvanizzante e lo avemmo. Rommel era “quel Rommel là”, il futuro generale dell’Africa Korp, la non ancora Volpe del deserto. Da ufficiale inferiore ci passò sotto il muso in vallata mentre noi puntavamo i cannoni a mezza costa di montagna. E grazie mille ancora oggi alla greca spocchiosa di Cadorna.

Non passa lo straniero

L’esortazione patriottica “Tutti Eroi! O il Piave o tutti accoppati!”, opera del generale del corpo dei Bersaglieri Ignazio Pisciotta

La Canzone dicevamo: arrivò e fu un inno che finalmente smentiva quello che noi italiani avevamo saputo fare meglio nel corso degli ultimi dieci secoli, far passare lo straniero. Un bollo tondo alle ragioni dei figli del Risorgimento che avevano bisogno di più pancia e meno cervello. Quella strofa finale, “non passa lo straniero”, sapeva di muro, di eroismo, di forza, di paura vinta e di trincee fangose costellate di braccia amputate, pidocchi, Carcano ‘91 puntati nella melma a fare da appendi-panni e scatole di pasticche Valda.

E per una volta fu tutto vero. I ragazzi del ’99 fecero sfaceli, lì su in montagna. I problemi però cominciarono quando l’Inno, che in realtà di intitolava “La Leggenda del Piave”, non la “Canzone”, venne adottato come Inno nazionale. Quando? Quando di vincere ce lo eravamo scordati: dopo l’Otto settembre del ’43, cioè quando nella guerra bis l’Italia si tirò fuori dall’alleanza con i tedeschi e non poteva certo rimettere in grammofono o alla radio la Marcia Reale. Quella era savoiarda e i Savoia avevano tradito, manco li cani. Questione quasi repubblicanamente chiusa.

Le strofe sul Piave dovevano diventare perciò Inno nazionale effettivo. Ma, nel giugno del 1946, all’improvviso, sbucò fuori il Canto degli Italiani di Mameli e Novaro, “Fratelli d’Italia“. È quello che cantiamo oggi ma solo quando gioca la Nazionale e magari vince e senza sapere che è lungo il quintuplo di quello che ci ricordiamo noi. Attenzione: anche quello fu per mesi Inno nazionale provvisorio e bisognava scegliere fra il Coro del Nabucco degli schiavi ebrei di Verdi e, soprattutto, La Leggenda del Piave.

Come i secondi a Sanremo

Alcide De Gasperi

Non potemmo adottare il primo ché con le leggi razziali approvate neanche 15 anni prima e con moltissimi ex fasciati tornati in Parlamento faceva tanto ipocrita. E nemmeno fummo capaci di adottare il secondo, forse l’unica canzone che metteva a tacere, finalmente, la retorica di un genio nazionale paviduccio e poco propenso agli eroismi.

Ma perché la Leggenda del Piave fece come quelle canzoni che a Sanremo non beccano il podio, in classifica ufficiale stanno in zona rasoterra e poi però la gente canta solo quelle? Per anni è andata avanti zoppa la tesi dei problemi “politici”, perché era tutto sommato la canzone con cui anche gli Arditi, i papà concettuali dei Fascisti, convissero e andarono stornellando a fare macelli. Come sul Col Moschin, ad esempio, che ringraziando Iddio oggi dà il nome ad un reggimento d’elite ancora salvo dalla imperante cancel-culture.

Ma no, non andò affatto così: la Leggenda del Piave venne scartata perché pare che Gaeta, l’autore, si fosse rifiutato di comporre l’inno nazionale della Democrazia Cristiana. Perciò un certo Alcide De Gasperi se l’attaccò al dito e fece come Mara Maionchi con Tiziano Ferro: aveva una hit sotto il grugno ma disse che per lui era un “no”.

Ma Leggenda o Canzone che fosse, oggi noi la cantiamo. Tutti. Repubblicani. E non sempre tutti amanti dell’Ariston. E alla fine sì, lo spariamo tutti, lo “Zan-Zan” finale.