Il sonno inquieto del tenente Gurbiel e quell’ordine: “Sali a Montecassino”

Il sonno inquieto del tenente Gurbiel, poi la chiamata del suo superiore e quell’ordine: “Sali a Montecassino”. Fu lui a sventolare la bandiera polacca sull'abbazia in macerie

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

La notte fra il 17 ed il 18 maggio era esattamente quella che sembrava: una notte di temperature dolci e di sogni amari. Era maggio sì, ma era maggio a Cassino ed era il 1944, il che significava inequivocabilmente che nessuno guardava il rosso dei papaveri ai margini delle forre della Valle del Liri. Ma solo il rosso dei petti aperti dei soldati, falciati dalle Mg34 e 42 del parà tedeschi. Era gente maledetta quella là, soldati con grosse tute azzurre “sbragate” da aviatori ed elmetti corti da lancio.

L’anima a Dio, il corpo all’Italia, il cuore alla Polonia

Il generale polacco Władysław Anders e sullo sfondo le macerie di Montecassino

Fegatacci infidi che sparavano dall’alto di una delle posizioni più munite dell’intera Europa in guerra: Montecassino. Quegli automi erano il nemico e per un polacco il nemico è sempre stato chiunque gli abbia messo i piedi in Patria. Nel corridoio iraniano il luogotenente Kazimierz Gurbiel se lo era fissato bene in mente, quel concetto: figlio di un popolo a sua volta guerriero e più orgoglioso ancora dei fanatici “avieri” turingiani che stava affrontando, si era addestrato al seguito di Wladyslaw Anders a fare una cosa sola: dare l’anima a Dio il più tardi possibile, il corpo all’Italia ove fosse stato necessario e il cuore alla Polonia, sempre, comunque e dovunque.

Ecco perché quando una voce burbera ma familiare svegliò il tenente Gurbiel dal suo sonno agitato prima dell’alba del 18 maggio 1944 l’ufficiale in realtà ci vide cosa grata. Il sonno era stato agitato e rotto dagli incubi dei mortai da 120 che giorni prima sulla Cavendish Road scavata a suon di tritolo a Caira avevano martellato il suo reparto fino alla follia. Un fischio non sempre udibile e poi la sequenza dell’orrore: la fontana di fuoco e detriti, il botto cupo, le schegge irraggiate e le urla di qualcuno che aveva perso una gamba o che srotolava le budella correndo verso i rifugi. Inglesi ed indiani rajaput li chiamavano “sangar”, ma erano solo buche o avvallamenti in cui rannicchiarsi.

Kaziu vai al monastero

Gurbiel sbattè gli occhi cisposi e riconobbe il suo comandante di squadra, il primo tenente Mieczysław Sander che lo chiamava con una strana impazienza scattista e nevrile. Gli sarebbe toccata una nuova pattuglia e l’ufficiale salutò all’inglese, poi piegò anulare e mignolo per onorare la Bandiera e si avviò a vegliare i suoi. Ma qualcosa non quadrava, quella non pareva una pattuglia normale, e quello non gli sembrava affatto un giorno come gli altri.

Appena il luogotenente si presentò a rapporto il suo superiore fu quasi paterno, ma come i padri che hanno problemi di tiroide. Quasi sputando Sander gli sibilò: “Kaziu, vai al monastero. Esplora cosa e come. Dicono che i tedeschi se ne sono andati. non crederci. Fai attenzione se sono ancora lì“. Ma cosa cacchio era successo? Perché a Gurbiel era stato chiesto di verificare se il nemico ancora ci fosse invece di accertare dove fosse e far puntare le Bren esattamente in quel punto?

La spiegazione il tenentino la ebbe fuori dalla tenda bassa: qualcuno aveva notato una bandiera bianca sulle rovine del monastero. Gurbiel ebbe un sussulto, lo ebbe per una serie di motivi che non conosciamo ma che possiamo immaginare: la bandiera bianca sul punto esatto da cui si era irraggiata la tigna macellaia del nemico significava che il nemico era allo stremo. E che assieme alla fine dell’orrore forse si stava palesando l’arrivo della giustizia. Perché per un polacco del 1944 la vittoria contro il tedeschi era esattamente quello: una cosa giusta e attesa.

Cinque uomini per una missione

La pattuglia del I Squadrone del XII Reggimento Lancieri Podolski che prese le rovine di Montecassino

Ogni polacco sulla Terra la attendeva da quando le divisioni corazzate di Guderian erano entrate come un coltello rovente nel burro nel suo paese, il primo settembre di un 1939 che sembrava di un altro secolo, da quanto era ormai lontano. Gurbiel mise assieme il dovere di soldati e la speranza di uomo e scattò come un aspide: in pochi secondi prese la bustina da ufficiale, l’elmetto, il Thompson, si sistemò la Colt in fondina rigorosamente aperta e partì. Con lui c’erano il Sergente Antoni Wróblewski, il caporale Mikołaj Orłów ed i soldati Józef Mularczyk e Michał Kowalski.

Cinque uomini per verificare se fosse davvero finita in un luogo che nei mesi precedenti ne aveva viste morire decine di migliaia, neanche mezza squadra di calcio per sapere se fosse finita dove era andata al macello tante di quella gente da popolare una piccola città. Gurbiel sentì il peso immane di quella responsabilità e si avviò. La strada era come sempre: non era una strada ma un rosario di gradoni, sentieri e “macere” disseminato da corpi dei soldati morti. La “Stellung”, la linea come la chiamavano i tedeschi, spesso era a poche decine di metri maledetti dai punti di massima incursione degli Alleati e in quei punti di frizione la Mietitrice faceva messe grossa e violentissima.

Ogni erta era buona per essere falciato da una raffica di Spandau, ogni metro segnava la distanza esatta fra ciò che eri e quello che di te avrebbero detto davanti ad una lapide. Poi il dubbio: i Diavoli verdi, maledetti loro, avevano già usato il trucco della bandiera bianca per tendere agguati e centrare carne alla posta.

Ore 9.30, I Squadrone 12° Rgt Lancieri

Il luogotenente Kazimierz Gurbiel issa la bandiera polacca su Montecassino

Ma quella volta no, non successe. Erano le 9,30 quando la pattuglia del I Squadrone del 12 Reggimento dei Lancieri Podolski entrò nelle rovine del Monastero. E non ci trovò nessuno, solo pochi soldati tedeschi feriti e accovacciati nell’erba a sanguinare nelle loro stesse bende. Kazimierz Gurbiel realizzò che era finita e restò alcuni secondi a fissare il vuoto dei suoi pensieri che montavano rombando come una marea. Si riebbe e spedì un soldato a dare la notizia al suo superiore. Aspettò che quel soldato tornasse, poi col cuore gonfio issò la bandiera polacca e quella inglese e si mise in posa per una foto. Quella foto oggi è grigia di nitrato d’argento e vira sui coloro di una storia che nessuno, a Cassino e nel Cassinate, ha dimenticato.

Gurbiel morì il 27 gennaio 1992 dopo aver pubblicato un libro, “La mia strada per Montecassino”. Perché si, i polacchi diedero le anime a Dio, i corpi all’Italia e il cuore alla Polonia. Ma il sollievo per un orrore finalmente finito, quello lo diedero solo a Cassino ed alle sue terre.

Dall’abbazia, oggi, 79 anni fa. E per sempre.