Il tarlo nella mente di Zingaretti: vincere Roma o salvare il Pd

Cosa è accaduto. Perché la fissazione per il patto con il M5S. Anche a costo di mettere a rischio la sua candidatura a Roma. Come poi è avvenuto. L'alleato necessario. Ma anche la variabile impazzita.

Carlo Alberto Guderian

già corrispondente a Mosca e Berlino Est

C’è una sola chiave per spiegare la decisione presa da Nicola Zingaretti di lasciare la guida del Partito Democratico. E quella di rinunciare alla candidatura come sindaco di Roma con la vittoria praticamente in tasca. Incomprensibili, inspiegabili, non condivisibili: a meno che non si sposti l’orizzonte e si osservi tutto con una prospettiva diversa. La chiave inizia ad aprire la serratura dei misteri nel momento in cui si allarga il quadro, si smette di guardare al risultato delle Comunali di Roma e si mette al centro il Partito Democratico nel 2023.

La prospettiva di Nicola

Deve essere stata una scelta drammatica e lacerante. Perché è maturata nel momento in cui tutto si stava per realizzare: il sogno di una vita amministrativa, il coronamento di una carriera politica: fare il sindaco di Roma. Cosa ha messo tutto in discussione? Un tarlo.

La locandina di Inception

Il tarlo è un pensiero. “Resistente, altamente contagiosa. Una volta che un’idea si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. Un’idea pienamente formata, pienamente compresa si avvinghia, qui da qualche parte” spiega mr Cobb nel film Inception. Il pensiero di Nicola Zingaretti ha iniziato a formarsi nel momento in cui ha pensato: “E poi la Regione Lazio: che fine farà?”.

Non è nostalgia: è politica. Perché il Governatore ha preso dalle mani del centrodestra nel 2013 un Lazio con circa 10 miliardi di debito nei conti della Sanità, un debito senza briglia che galoppava distruggendo tutto. Un debito che mangiava tutte le risorse impedendo così di realizzare strade, ponti, scuole. Talmente vorace che aveva obbligato i Governatori precedenti Piero Marrazzo e Renata Polverini a bloccare le assunzioni di medici ed infermieri, eliminare ogni spreco, chiudere ospedali ed accorpare reparti. Tutto finiva assorbito in quel buco nero senza fondo.

A distanza di sette anni la Regione Lazio è la regina indiscussa nella battaglia contro il Covid: può guardare negli occhi l’espertissimo Veneto, giudicare dall’alto la blasonata Lombardia. Un modello di efficienza che ha toccato con mano chiunque si sia vaccinato nel Lazio in questi mesi.

Il commissariamento in Sanità è finito, il debito è sotto controllo, gli investimenti e le prospettive stanno tornando.

E allora dove sta il problema? Non c’è uno Zingaretti dopo Zingaretti per governare il Lazio. E questo è solo l’inizio del tarlo. Non c’è una prospettiva per il Paese se il Partito Democratico si infila nello stesso errore di presunzione che ha massacrato Matteo Renzi. Cioè? Il Pd non può bastare a se stesso. Solo la coalizione può salvare il centrosinistra. Nè più né meno di ciò che avvenne con la fioritura dell’Ulivo di Romano Prodi.

Rendere competitivo il Pd

Sergio Pirozzi

Nasce lì il tarlo nella mente di Zingaretti e più si avvinghia più la prospettiva è ampia. Torniamo alla domanda da cui tutto nasce: “E poi la Regione Lazio: che fine farà?”. Nel 2018 il Pd mantenne il governo del Lazio: l’unica bandiera Dem rimasta a sventolare mentre il Pd renziano franava dal 40% al 20% e si riduceva in un ammasso di macerie. Perché sia accaduto l’anno spiegato decine di analisi, perché il Lazio abbia resistito lo spiegano due banali fattori: il primo si chiama Nicola Zingaretti, il secondo è stata la frattura di un centrodestra che ha prodotto la candidatura all’ultimo istante d’un gentleman milanese chiamato Stefano Parisi e quella dell’allora popolarissimo sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi.

Un dato deve essere chiaro: senza la combinazione di quei due fattori il Pd nel 2018 mai avrebbe vinto nel Lazio. E soprattutto quei due fattori non sono ripetibili. Perché al posto di Zingaretti potrai candidare anche Papa Francesco ma il centrodestra non ripeterà l’errore di togliersi lo Scarpone (come all’epoca si chiamava il movimento di Pirozzi).

S’ingrossa da qui il tarlo e si impossessa del cervello: l’unica salvezza non è trovare un altro Zingaretti ma rendere competitivo il Pd.

A fari spenti nella notte del Pd

Quel tarlo si unisce ai pensieri analoghi maturati nella notte del Pd di marzo 2018. Tra i pochi rimasti in grado di pensare in quel Partito, iniziò a prendere forma una strategia. Nasce da lì la strategia del dialogo con il Movimento 5 Stelle portata avanti a fari spenti: gli artefici furono l’allora presidente del Consiglio Regionale Daniele Leodori, l’allora capogruppo Pd Mauro Buschini, il capo di Gabinetto Albino Ruberti. Dietro di loro, invisibili, a coordinare, analizzare, rimodulare, posizionare, c’erano Nicola Zingaretti ed il Segretario regionale Bruno Astorre.

Leodori, Buschini e Zingaretti

Ora, chiunque venga da sinistra non può che provare l’orticaria appena si nomina il Movimento 5 Stelle. Ed il sentimento è reciproco. Soprattutto in quel momento storico: è il Pd di Bibbiano, nel quale tranne mangiare i bambini gli si attribuisce ogni nefandezza compresa quella di strappare i figli ai genitori per darli in adozione (circostanza smentita dai processi).

In quel clima nasce il dialogo. Inizialmente per 6 mesi. Nei quali il Pd di Nicola Zingaretti ed il M5S di Roberta Lombardi (non una signorina di primo pelo ma la signora che ha sbranato via streaming Pier Luigi Bersani) iniziano a studiarsi. La diffidenza è reciproca. Si parte dai punti in comune tra i rispettivi programmi. E la Lombardi scopre che di quel Pd ci si può fidare, il Pd scopre che c’è un M5S capace di fare proposta oltre che protesta.

Nasce una strada di dialogo sempre più larga, solida, bastata sulla fiducia. Che contribuisce alla nascita del Governo Conte 2 quando naufraga l’innaturale alleanza tra M5S e Lega a Palazzo Chigi.

Conduce in maniera quasi naturale all’allargamento della giunta Zingaretti quando naufraga il Conte 2

Il sacrificio della coalizione

C’è un insegnamento antico che a questo punto va ricordato. È dell’avvocato Achille Migliorelli, sindaco di San Giorgio a Liri, docente nella Scuola di Partito, figura scomoda per il Partito Comunista Italiano. Al punto che ne impedì la candidatura alla Camera dei Deputati preferendo schierare l’avvocato Franco Assante. Che in fatto di essere accomodante con l’ortodossia del Partito era ancora peggio di Migliorelli. Ma il Pci questo non lo sapeva.

L’avvocato Achille Migliorelli

Achille Migliorelli insegnava che ci si candida per vincere e non per vincere il potere. Dove sta la differenza? Vincere significa poter realizzare le richieste delle masse che affidano il voto al loro candidato. E questo spiana la strada al concetto delle alleanze. Ma allearsi non significa tradire un po’ del proprio elettorato? Pragmatico, Achille Migliorelli spiegava che con un’alleanza è vero che si deve rinunciare ad una parte del proprio progetto ma in cambio si riesce a realizzare almeno una parte di quanto chiedono gli elettori.

A chi gli ribatteva che esistono anche le battaglie di principio e si può anche perdere, rispondeva che perdere è una cosa ed aiuta a crescere rimuovendo gli errori che hanno portato alla sconfitta. Ma candidarsi sapendo di perdere significa fare un piacere al vincitore: perché così si legittima il suo successo. Meglio una coalizione – diceva – dove porti il 5% ma poi puoi reclamare per i tuoi elettori il 5% delle cose che ti hanno chiesto.

Si spiega tutto qui cosa è accaduto dopo. Nicola Zingaretti ha sempre avuto ben chiaro che il Pd è al 20% ed anche se facesse un exploit storico raddoppiando i suoi voti arriverebbe al 40%. Che è sempre meno del necessario per vincere e governare. Nasce da qui il dialogo con Giuseppe Conte lasciando a lui il compito di fare leva su quella parte del M5S che è capace di fare proposta di Governo.

Impossibile rinviare la Giunta

Nasce da qui le scelta di allargare subito la giunta a Roberta Lombardi e Valentina Corrado, esponenti di due sensibilità differenti nel M5S.

Nicola Zingaretti con Roberta Lombardi e Valentina Corrado (Foto: Livio Anticoli / Imagoeconomica)

Nel Pd molti sostengono che Nicola Zingaretti avrebbe potuto farlo dopo avere vinto le Comunali di Roma. No, perché a quel punto sarebbe stato letto come un ‘fare prigionieri’ gli sconfitti alle urne. Invece al Pd serve un dialogo sano con il M5S e con tutte le sue contraddizioni. Se vuole essere competitivo.

Era indispensabile e non rinviabile fare quell’allargamento in quel momento. Perché è un patto alla luce del sole, perché Pd e M5S condividono le responsabilità di governo. Perché è un alleanza e non un accordo elettorale. È una cosa diversa da quanto avvenuto in Umbria ed altre regioni: dove infatti alle urne è andata male. Qui non è un patto per il potere ma per il governo della Regione. L’esempio che insieme si può fare. (Leggi qui Nel Lazio governo PentaDem Zingaretti: “Intesa storica”).

Il sacrificio su Roma

Non è un atto di sudditanza. Come ha dimostrato Roberta Lombardi quando ha puntato i piedi e detto con chiarezza che non era possibile la candidatura di Nicola Zingaretti a sindaco di Roma.

Nemmeno è una sconfitta per Nicola Zingaretti: è una conseguenza. Messa nel conto. Virginia Raggi è l’unica bandiera amministrativa rimasta al Movimento 5 Stelle: buona o pessima, Roma ridotta ad una fogna o risanata ha poca differenza. È la bandiera. E ritirarla avrebbe significato la sconfitta definitiva del MoVimento e tutto ciò che ha rappresentato. Ben oltre la metamorfosi compiuta in questi tre anni.

È esattamente questo a rendere impossibile la candidatura di Zingaretti. Non può spianare la strada del dialogo con M5S e dell’alleanza in Regione per poi mettere nel mirino la bandiera di quello stesso Partito a Roma.

Diverso sarebbe stato se Giuseppe Conte fosse riuscito a convincere Virginia Raggi a rinunciare. Ma la sola presenza della sindaca in campo ha reso impossibile la candidatura di Zingaretti. Avrebbe significato far cadere oltre tre anni di ragionamenti. Soprattutto avrebbe messo in discussione l’unica via che può portare ad un Pd competitivo.

La variabile impazzita

Giuseppe Conte e Virginia Raggi (Foto: Imagoeconomica)

C’è una variabile impazzita che non può essere negata. Quanto Virginia Raggi oggi è il Movimento 5 Stelle con cui Nicola Zingaretti ha dialogato? Quanto è frutto di una intelligente manovra di palazzo condotta insieme a Davide Casaleggio, che ha disarticolato parte del vecchio Movimento e quindi di tutto il ragionamento?

La via dell’alleanza con cui rendere competitivo il Pd passa da lì. E sulla stessa strada passa l’unica possibilità di sopravvivenza per il M5S. Perché ripresentarsi alle urne come nel 2018 significa avviare la liquidazione del Movimento. Il motivo? Semplice: il centrodestra non ne ha bisogno. È autosufficiente.

Non è solo il Pd a non essere competitivo. Lo è anche il M5S. E l’unica possibilità per loro è una sintesi comune. Non ci sono alternative.

È questo il tarlo che ha condizionato le scelte di Nicola Zingaretti.

error: Attenzione: Contenuto protetto da copyright