L’indifferenza di cui siamo stati colpevoli (di H.D. Toro)

C'è una parola a scandire lo sterminio silenzioso dei nostri vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro. Quella parola è 'Indifferenza'. Incisa ora lungo il binario 21 della stazione

Henry David Toro

Preside frusinate in prestito all'Emilia

Ogni anno ormai, nella settimana che precede il 27 gennaio, mi assale un senso di tristezza difficile da definire. Una frustrazione, un senso di impotenza di fronte alla responsabilità di ri-cor-dare (“restituire nuovamente al cuore”) l’immane tragedia della Shoah. Un unicum nella storia moderna degli ultimi due secoli, come non mi stanco di ripetere ad amici e studenti.

La legge 211 del 20 luglio 2000 ha certo meritoriamente istituito questa importante ricorrenza; essa reca come titolo “Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti” e si compone di soli due articoli.

Il primo recita:

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Giorno della Memoria, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.

L’articolo 2 aggiunge:

In occasione del Giorno della Memoria di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”.

Ho organizzato negli anni, assieme a tanti colleghi, diversi incontri nelle scuole dove ho lavorato, invitando testimoni diretti e indiretti. Tra questi ricordo con piacere Carla Di Veroli, nipote di Settimia Spizzichino, unica donna sopravvissuta al rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto il 16 ottobre 1943. Nel 2015,  in occasione del centenario del genocidio armeno, fu un grande piacere accogliere sua eccellenza l’ambasciatore a Roma della Repubblica d’Armenia, Sarghis Ghazaryan, il quale venne a Frosinone espressamente per parlare con gli studenti, senza compiere altre visite ufficiali.

Con lui vi era Misha Wegner, poeta tedesco naturalizzato italiano, figlio di Armin Wegner, “Giusto tra le Nazioni” allo Yad Vashem di Gerusalemme per la sua opposizione ad Hitler negli anni Trenta e primo uomo a testimoniare con le sue straordinarie fotografie (nel 1915 era un sottotenente tedesco impegnato sul fronte turco nella Grande Guerra) l’inizio del genocidio armeno, ancora oggi non riconosciuto pubblicamente da tutti i governi turchi. 

Fu l’occasione per parlare di un genocidio in parte dimenticato e che precedette di un ventennio la Shoah. Ciò che ricordo con maggior chiarezza del discorso dell’ambasciatore fu il fatto che Hitler si spinse nella direzione di una soluzione finale “anche” perché l’Impero ottomano durante la Grande Guerra aveva compiuto atrocità simili, sfruttando proprio l’atteggiamento dell’opinione pubblica europea, rimasta sostanzialmente e colpevolmente indifferente.

L’indifferenza, allora, mi parve la parola chiave per riflettere e tentare di comprendere quel che era accaduto. Ed anche la fondamentale parola per cercare di capire l’apatia del mondo contemporaneo di fronte alle ricorrenze come quella del 27 gennaio, che rischia di trasformarsi in vuota retorica. (leggi qui l’opinione del professor Pietro Alviti Si è colpevoli anche del silenzio)

INDIFFERENZA, d’altra parte, è la parola incisa a caratteri cubitali lungo il Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, divenuto il Memoriale della Shoah della città lombarda. La parola fu scelta con cura per rappresentare il sentimento che più di ogni altro aveva fatto patire gli ebrei: l’indifferenza della gente comune nei confronti di ciò che stava accadendo in quegli anni.

Dopotutto gli ebrei italiani erano molto ben integrati nella società di allora, così come lo erano gli ebrei francesi, olandesi, tedeschi, polacchi o ungheresi. Ma l’indifferenza che subirono fu per loro devastante, come hanno ricordato pochi giorni fa la senatrice Liliana Segre ed il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che le ha permesso di entrare in Senato. 

È la stessa indifferenza in fondo che, mista a paura e vigliaccheria, aveva condotto i docenti universitari italiani, dopo la promulgazione delle leggi che imponevano l’obbligo di fedeltà al fascismo, a rispondere “” in massa, lasciando nella solitudine più tragica i (soli) 13 professori su 1300 che avevano rifiutato di piegarsi, perdendo così, cattedra, stipendio e pensione.

La maggioranza girò la testa dall’altra parte, mossa da motivazioni in fondo ignobili. Valga per tutti l’esempio (riportato nel bel libro di Antonio ScuratiIl tempo migliore della nostra vita”, dedicato all’ebreo russo-italiano Leone Ginzburg – uno dei tredici) del giurista Gioele Solari, illustre filosofo del diritto e antifascista che, a guerra finita, aveva detto di sé: “Non ebbi il coraggio, né dell’esempio, né del sacrificio”.

È la stessa (nostra) indifferenza che circonda oggi molti ebrei europei i quali, nelle civilissime Anversa, Tolosa, Parigi, Bruxelles e tante altre città, sono stati (e vengono) trucidati, offesi, minacciati (a Berlino poco tempo fa alcuni cittadini hanno chiesto all’editore di una rivista ebraica cui erano abbonati di spedire loro il plico nascondendo il nome, per paura di divenire oggetto di bersaglio terroristico). 

E’ la stessa indifferenza, cui si aggiunge una totale incomprensione del significato della Shoah – quando se ne fa un uso strumentale o di parte – quella che porta a sminuire o negare questo stesso unicum e a celebrare poi con enfasi nazionalistica il “Giorno del Ricordo” a febbraio in onore dei morti nelle foibe titine. Come se la scelta di ricordare la Shoah fosse una scelta di parte, “contro” qualcuno o “contro” un’altra ricorrenza, invece che una scelta di umanità. 

Capite allora quanto possa essere difficile parlare di Shoah nelle scuole ai giovani d’oggi, in incontri che sfiorano inevitabilmente la retorica, mentre alcuni ragazzi si distraggono, scherzano o giocano con lo smartphone. Un compito immane per i docenti, da sempre in prima linea. Ma forse in ultima analisi necessario e ineludibile, se non vogliamo che  accada qualcosa di simile a quanto descritto in una scena del film di Spielberg “La lista di Schindler”, non una delle più celebri, ma quella che rende perfettamente l’idea di come l’indifferenza possa generare il male assoluto, che neanche la cultura “scolastica” è in grado di scalfire. 

Durante la rappresentazione cruenta della liquidazione del ghetto di Cracovia, mentre i soldati nazisti, lungo le scale di una palazzina, uccidono donne, uomini e bambini a colpi di mitra, in un appartamento un altro soldato, poggiato a terra il proprio fucile, suona da bravo giovane della colta borghesia tedesca un preludio di Johann Sebastian Bach. Altri soldati, ancora eccitati per la carneficina di cui sono protagonisti, urlano ridendo al soldato-pianista: “Was ist das? Das ist Bach? Das ist Mozart?” (Cos’è questo? E’ Bach? E’ Mozart?)