Internazionale, i protagonisti della I settimana MMXXII

I protagonisti della I settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della I settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

IN EVIDENZA

KASSIM JOMART TOKAJEV E VLADIMIR PUTIN

Kassym-Jomart Tokayev e Vladimir Putin (Foto: The Presidential Press Office)

In Kazakistan sono successe due cose distinte che qualcuno ha voluto mettere assieme per fare folla, cioè confusione: da un lato ed a partire dal 2 gennaio la più parte della popolazione, che guida auto retrò e riconvertite, è scesa in piazza per protestare contro l’aumento dei prezzi per litro del Gpl. Dall’altro e da molto prima che il mainstream internazionale se ne accorgesse, circa da metà ottobre 2021, una buona parte della popolazione era scesa in cantina per studiare come fare a rovesciare un governo terminale e brutalissimo nei suoi approcci con i governati.

Non una, ma due faccende. Che poi hanno fatto crogiolo e spinto gli incazzosissimi kazaki, che sono cugini dei cosacchi Zaporoghi, non degli hppies della etilica Napa Valley, a mettere a ferro e fuoco il Paese che amano. Lo hanno fatto per lavarne l’onta dispotica e risolvere qualche cruccio economico grosso.

E per tre giorni lo hanno fatto, lo hanno fatto davvero. E dopo aver incendiato il palazzo comunale della capitale economica Almaty, erano lì lì per far cadere la seggiola traballante del presidente Jomart Tokaiev. Presidente che però non a caso da quelle parti è chiamato “il mangia tiranni”. Lo chiamano così perché come tutti gli spodestatori di despoti è più deposta lui di chi ha spodestato, vale a dire l’autarca Nursultan Nazarbayev che a suo tempo si faceva adorare come un Apollo col gilet di pelo.

E il suo successore in quanto a piglio poliziotto non è stato meno di lui e in due giorni due ha sedato la rivolta. Diciamola meglio, in due giorni ha triturato non le istanze dei dimostranti, ma i dimostranti stessi. Certo, lo ha fatto con l’aiuto diretto di chi gli ha spedito una intera brigata aviocondotta di spetsnaz comandati dall’arcigno generale Andrey Sedov, ma alla fine è il risultato che conta.

Quale risultato? Che una rivolta nata per contestare prezzi e metodi politici è finita con 164 morti, 2mila feriti e 5234 arrestati. In cella sulla base di 125 diversi profili penali di un codice hammurabiano. Che il capo dell’intelligence, Karim Masimov, è stato arrestato per alto tradimento perché non ha saputo spiare abbastanza gli insorti da prevederne i raid. E che i gargarismi dei mitra della polizia ancora oggi fanno da contrappunto al tintinnio delle manette degli agenti del ministro dell’Interno Tourgoumbaiev.

Che Vladimiro Putin, che non ha resistito alla tentazione di andare a mettere ordine dove una volta il suo Paese metteva bandiera, ora ha un altro fronte aperto oltre quello dell’Ucraina, un fronte rovente dove è andato a tutelare il suo market di idrocarburi e la sua piazza d’armi per fare vedere al mondo che Urss o Russia poco cale: dove c’è l’orso moscovita la storia la fanno le sue zampe. E le sue unghie.

Si son fatti i Kazakistan loro.

UP

GOOGLE

Con il 2022 Google News tornerà, anzi “volverà“. Dove? Esattamente dove il verbo indiziario indicava, cioè in Spagna, da cui l’aggregatore di news aveva fatto le valige sette anni fa, nel 2014. Dalla terra iberica GN ci sloggiò per una questione di leggi e norme che si è trascinata in quanto ad effetti per oltre un lustro, fino all’annuncio del 3 novembre scorso ed alla conferma dello switch-on entro gennaio 2022. 

La sede Google a Mountain View

Ma cosa era successo fra Mountain View e Madrid? Che una vecchia legge spagnola imponeva a tutti gli editori di chiedere un compenso forfettario, come categoria, si badi, agli aggregatori che mettessero in punta di Seo le loro notizie. In buona sostanza in Spagna c’era da pagare una tassa fissa per mostrare estratti delle notizie. E in un mondo che sulle notizie ci campa se la tassa era indicizzata da un contratto collettivo il salasso era maiuscolo. 

Google News perciò aveva fatto le valige dal recinto “esoso” di una nazione che non credeva nel principio di contrattazione singola. 

Spieghiamola: se paghi una tassa sulle mele a prescindere ci perdi, se con ogni padrone di meleto puoi trattare singolarmente finisce che ci guadagni, perché ogni tre proprietari scafati ne trovi cinque gonzi o quanto meno abbordabili e fai la media. Tutto questo fino a pochi mesi fa, quando la nuova legge spagnola sul copyright ha consentito alle piattaforme di aggregazione come Google di negoziare con i singoli editori un compenso per indicizzare le loro notizie. 

La differenza tecnica, mele a parte, è abbastanza evidente: se hai il binario obbligato di un rimborso per tutti è una cosa, se con ognuno puoi trattare e magari spuntare clausole di vantaggio la faccenda cambia ed aggregare con le keyphrase torna ad essere economicamente conveniente. 

E sul flamenco di questo ritorno le nacchere battono anche una novità: la legge permetterà alla società di attivare in Spagna Google News Showcase, una piattaforma lanciata di recente in cui vengono mostrati articoli scelti da redazioni considerate affidabili e prestigiose. 

Doodle con le nacchere

TESCO-GORILLAS

Tesco (Foto: Tesco Plc)

Le grandi svendite dopo la sbornia festiva in atto sono dietro l’angolo e Tesco ha deciso non non rimanerci, all’angolo, perciò ha stretto la mano a Gorillas. Spieghiamola ai boomer. Tesco è il primo distributore di generi alimentari del Regno Unito ed uno dei primi al mondo. Invece Gorillas è un’azienda tedesca di delivery food che si è data la mission delle consegne entro massimo 10 minuti dall’ordine. 

Insomma, a loro modo e nel loro mondo sono due giganti. Ed hanno capito che il loro mondo sta diventando semplicemente “il mondo”, perché delivery e distribuzione erano aspiranti despoti prima del Covid, ma dopo il Covid saranno tiranni assoluti. Perciò Tesco e Gorillas hanno messo da parte i ricordi della Battaglia d’Inghilterra in cui Uk e Germania se le diedero nei cieli e hanno deciso di collaborare in terra. Son cose che la globalizzazione fa meglio di millemila colombe della pace. 

L’accordo fra le due società è stato stilato a novembre ma è a gennaio che i vertici si sono dati la prova del nove. Perché? Perché con le festività di fine anno cassate e con la pandemia che finita non lo è affatto ci saranno praterie da percorrere. E danè da fare a bancali. Lo start era avvenuto nel punto Tesco di Thornton Heath a sud di Londra, le altre tre grandi sedi della capitale londinese sono partite dal 3 gennaio. 

Una gamma di oltre 2.000 prodotti verrà consegnata da mini magazzini allestiti nello spazio libero all’interno dei supermercati i cosiddetti “dark stores” su cui Gorillas ha costruito la sua mistica da roadrunner. Poco da fare: paura dei contagi, traffico, e lavoro da casa hanno accelerato il passaggio allo shopping online

Andavano solo ammortizzati i costi per installare centinaia di mini magazzini “dark store” necessari per offrire un servizio decente, perciò come hanno fatto i due? Hanno colonizzato a prezzi stracciati gli spazi una volta occupati dai negozi di elettrodomestici che sono in gran parte transumati tutti sul web. 

Jason Tarry, amministratore delegato Tesco Uk, gongola, Adrian Frenzel, chief operating officer di Gorillas, ridacchia e quel “we shall never surrender” urlato fieramente da Churchill nel 1940 va nella soffitta dei ricordi belli. Perché se c’è una cosa in grado di fare boccino del passato quella è un futuro con guadagni a sei zeri.

Baciami crucco.

DOWN

COP26

I leader mondiali a Cop26 (Foto: Dati Bendo / Imagoeconomica)

Chiacchiere, distintivo e minorenni che ci cazziano, ma oltre quello e i grandi accordi mainstream a fare la tara a qualche leader testone non è arrivato nulla di concreto. Nulla che rispondesse ad esempio alla logica essenziale del “qualcosa va fatto subito” e dove quel subito non avesse il range sbragato dei lustri o dei ventenni.

Un qualcosa che magari impedisse a questa rubrica di girare l’ultimo angolo del 2021 ed approdare al primo del 2022 con le pene di uno dei luoghi dove è cominciata l’avventura storica dell’umanità. In pratica: la fetta di terra una volta benedetta fra il Tigri e l’Eufrate. Dai libri di storia dove le prime civiltà del mondo mossero i primi passi all’Iraq di oggi il passo non è breve. Né indolore se parliamo di acqua. 

Ce la racconta meglio Abdullah Kamel, un contadino di Al Hamra intervistato da Al Jazeera: “Quattro anni fa, il ruscello che attraversava il villaggio si è prosciugato ed ora tutti gli alberi sono morti“. Kamel una volta coltivava agrumi sontuosi e melograni grossi come mongolfiere nel villaggio del governatorato di Saladino, a nord di Baghdad. Con i suoi amici ha scavato pozzi ma le falde sono salmastre o profondissime ed esigue. 

Sembra strano come oggi, nei giorni in cui l’Occidente si è appena bagnato la strozza di sciampagna ci siano parti del mondo che non possono umettarsi la gola di acqua, ma è così e va detto forte. Nella zona del Tigri e dell’Eufrate, non esattamente il Kalahari dunque, ci sono sette milioni di persone a rischio di vita per carenza idrica massiva. 

Le cause? Le solite, quelle che alla Cop26 di novembre hanno fatto fare i gargarismi a tutti: aumento delle temperature, bassi livelli di precipitazioni, dighe a go go fra Turchia ed Iran e difficoltà di accesso alle falde. Rebrwar Nasir Dara, docente di geologia alla Salahaddin University, ha affermato che “il cambiamento climatico è uno dei fattori che ha portato alla desertificazione e alla siccità in Iraq e i livelli ridotti dell’acqua nei fiumi Tigri ed Eufrate stanno aggravando questo problema“. 

Ora che abbiamo stappato la sciampagna per salutare il 2022 facciamocelo un pensiero ad Abdullah. A lui, alla sete dei sette milioni di poveri cristi con cui vive e bestemmia. E a quello che forse dovremmo iniziare a fare: da ora.

A secco di idee.

LA LIBIA

Le primavere arabe puzzano sempre un po’ di inverno. E sotto la più parte di quei germogli resta quasi sempre il ghiaccio di una gemma nata male e deboluccia. Come in Libia ad esempio, dove il 24 dicembre l’Onu aveva messo in volenteroso cantiere le elezioni presidenziali più fantasma della storia. Perché fantasma? Perché portare al voto i libici dopo che con un blitz armato decine di uomini della Brigata Al-Samoud hanno assediato l’ufficio del premier Abdul Hamid Dbeibah a Tripoli era da pazzi.

Lo aveva annunciato con foga buffona lo stesso portavoce del gruppo armato: “In Libia non ci saranno elezioni presidenziali e chiuderemo tutte le istituzioni statali“. Ma cosa sta accadendo nel turbolento stato islamico affacciato sul Mediterraneo? La chiave di volta che fa cadere il castello di carte delle mire democratiche di Tripoli è un cambio della guardia ai vertici militari. Cambio che non è stato gradito dalle milizie armate.

Spieghiamola: in Libia ormai non si fanno più i colpi di Stato ma si gioca più di fino. Semplicemente si minaccia a mano armata lo Stato se lo Stato non mantiene in carica gli uomini forti graditi alle bande. E a metà dicembre era stato sostituito il capo supremo dell’esercito, Abdul Basit Marwan con lo sciapo generale Abdel Qader Mansour. Perché? Perché in vista del voto di fine anno la figura di Marwan era troppo ingombrante: lo era perché compromessa nella guerra contro Khalifa Haftar, l’uomo fortissimo della Cirenaica. 

Che aveva invece in testa quel bricconcello di un Fronte Islamico? Voleva accumulare voti proprio in forza degli uomini giusti in posizioni apicali di governo. Perciò vedere rimosso il più forte fra i suoi uomini forti è stata una faccenda che i signori non hanno gradito. E che li ha spinti ad imbracciare il mitra. 

E perciò addio alle elezioni presidenziali organizzate dall’Onu per il 24 dicembre e nessuna nuova in questi primi giorni del 2022. Addio perché promuovere una campagna elettorale nata sotto il presagio oscuro di diventare una macelleria di strada non è esattamente la mission dell’Onu. E il corvo sciita che ha vanificato l’ennesima primavera araba nata male e finita peggio se la ride.

Corvo a primavera.