Internazionale, i protagonisti della IX settimana MMXXII

I protagonisti della IX settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

UP

I GIORNALISTI TURCHI

Una rassegna di quotidiani turchi

Per noi cresciuti a pane, veline e cappuccini nelle buvettes delle procure dove i Pm ci guardano bene e gli avvocati ci danno pacche sulle spalle è difficile intuirlo. Lo è perché alla lunga lo si dà per scontato, tuttavia appare evidente che fare il giornalista nel paese “giusto”, può essere una benedizione. Può esserlo perché nei Paesi “giusti” le libertà che di questo mestiere sono il presupposto le minacciano cose sottili. Sono cose che, pur restando sconcie (come la prescrizione della diffamazione in sette anni e mezzo o gli stipendi da fame che ti svaccano entusiasmo e cifra stilistica) ti lasciano vivere e magari avere tempo per maledire la vita che hai scelto.

Preambolino: qui si parla delle interazioni con i sistemi complessi di governo, non degli affacci nella galassia del crimine, non ci sogneremmo mai di andare a dire ad un Giancarlo Siani che questo è il “Paese giusto”. Ci sono poi Paesi “sbagliati” dove fare il giornalista e significare quella cosa bellissima e sacra che è la libertà di opinione è un pochettino più difficoltoso, ecco. Paesi come la Turchia ad esempio, dove solo un mese fa Recep Erdogan aveva fatto arrestare la giornalista Sedef Kabas perché aveva tweettato: “Quando il bue sale al palazzo, non diventa un re, ma è il palazzo che diventa un fienile”.

Inutile precisare chi fosse il bue e quale palazzo si fosse fatto fienile grazie ai suoi muggiti, dato che il bovino in questione aveva subito messo in moto un carosello per cui il ministro della Giustizia Abdulhamit Gul aveva latrato che Kabas avrebbe ottenuto “ciò che merita” per le sue parole “illegittime”.

Recep Tayyip Erdoğan

Ecco, concentriamoci un attimo su questo ossimoro: “parole illegittime“. Nel nome di questo mantra cretino in Turchia e negli ultimi sette anni sono stati incriminate decine di migliaia di giornalisti. Nel 2020 sono state avviate 31.297 indagini in relazione all’accusa, sono stati archiviati 7.790 casi e 3.325 sono arrivati a condanna. Allarghiamo la prospettiva: dal 2014, anno in cui Erdogan è diventato presidente, sono state avviate 160.169 indagini per aver insultato il presidente, sono stati istruiti 35.507 processi e ci sono state 12.881 condanne.

Arriva gradita perciò la notizia per cui alcuni giornalisti turchi hanno deciso di creare una carta dei diritti interna, una sorta di proclamazione di libertà fondamentali che altri dà per scontate e di cui il loro Paese, almeno nella formulazione di potere attuale, fa strame almeno due volte al mese. Arriva gradita perché dire quel che si vede e farlo sapere a chi ti legge per aiutarlo a farsi un’opinione senza che la tua prevalga è la cosa più bella del mondo. E farlo dove facendolo rischi la galera è la cosa più difficile dell’universo. E forse proprio per questo ancora più bella, ma solo per chi da quel paese sta fuori.

Malediteci senza zittirci, please.

I RUSSI

La piazza Rossa. Foto: nl.monteiro

Non è mai stato facile come adesso capire quanto sia scollegato Vladimir Putin dalla società che ha ancora la presunzione di incarnare in ogni suo più recondito sentimento o aspirazione. E se c’è una sola cosa per cui, solo in amarissima iperbole, dovremmo ringraziare la follia del capo del Cremlino quella è proprio la sua funzione quasi chimica. La funzione di essere stato il catalizzatore emotivo dei molti russi che alla sua guerra non ci credono, che la sua guerra non la vogliono e che con la sua guerra non vogliono avere a che fare. 

Gemellanza storica o meno con l’Ucraina, quello che si percepisce nella società russa, soprattutto nei giovani russi cresciuti a pane e globalizzazione, è un meccanismo per il quale bisognava solo trovare un’occasione di sincera solidarietà militante per dire una cosa più netta. Dire, anzi no, urlare in piazza che l’autarchia brutale e poliziotta del presidente ha stufato quella stessa società che fino a due generazioni fa di quella visione muscolare se ne beava

Putin non sta “perdendo la guerra” contro un Occidente ricompattato in paradosso proprio da lui, non sta perdendo la nomea da blitzkrieg di un esercito fatto più di ragazzini foruncolosi che da fanti spietati. Lui, che di ogni azione di questa follia resta sentina involontaria ed unica, sta perdendo la guerra contro la sua Nazione. O quanto meno contro quella sua parte che non ha paura di farsi arrestare a migliaia, non teme i giganteschi poliziotti del Fsb, non trema di fronte alle notti in gattabuia e non arretra di fronte ad una lotta giusta ma pericolosissima. 

Vladimir Putin

E il fatto che prima dei colloqui a Brest lo Zar abbia istituito la legge marziale per avere coscritti d’imperio e mano più spiccia ancora con i dissidenti la dice lunghissima su quanto Putin sia diventato debole. Perché se chiama un leader il suo popolo risponde spontaneo, ma se chiama un capo c’è sempre una parte di popolo che al capo fa una pernacchia. E i russi che oggi si battono perché la guerra finisca e le pernacchie le sanno fare meglio dei napoletani. Perché di Napoli e delle sue Quattro Giornate sanno tutto, di quelle e di Fantozzi che libera l’ugola sulla corazzata Potemkin con il capo ducetto.

Non sono oligarchi in pelliccia che temono ciò che che Putin può fare, sono cittadini che odiano quel che Putin è. Però anche senza yacht e jet conoscono il mondo e quanto sia bello sognarne uno libero davvero e dio benedica la rete, le dogane lasche, il turismo e i viaggi low cost. Perché sono loro i soldati che, assieme ai russi, alla fine batteranno Putin e tutti i Putin del mondo.

La guerra è una cagata pazzesca.

DOWN

VALERIJ GERASIMOV

Valery Gerasimov (Foto: Alexey Ereshko)

Le cose vanno così, in geopolitica, se inventi una dottrina, anche se ufficiosa è non riconosciuta, quella poi prende il tuo nome. E la Dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida, macellaia e sorniona al contempo, è la chiave esatta di lettura di quello che Vladimiro Putin ha apparecchiato per Kiev. Di quello e della timidezza generale della risposta delle nazioni che con Kiev dicono di stare perciò trucemente sanzionano.

C’è un dato netto: la guerra in purezza non esiste più da tempo, non in quegli ambiti dove la guerra è sintomo e non diagnosi. Finanza speculativa, imprevedibilità assoluta e tattiche di sabotaggio spalmate sullo scacchiere fra web e infiltrazione di singole unità sono i nuovi ingredienti di una pietanza antica come l’uomo e duttile come i suoi appetiti.

Valerij Gerasimov è un generale di Putin, uno di quelli che al mondo questo nuovo concetto di guerra lo hanno capito prima e meglio di tutti. Lui è un pluridecorato alto ufficiale con incarichi operativi che dal 2012 è Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa. Viene da Kazan ed ha comandato con polso di rovere la 58ma Armata del Caucaso. Con quella trasformò la seconda guerra cecena in un capolavoro horror di efficacia militare e propaganda.

C’è lui, c’è Gerasimov, il teoreta che fiuta l’aria dei paesi che deve invadere, dietro la tattica ad elastico con cui 19 divisioni di Mosca hanno abbozzato un dietro front teatrante per rifiondarsi nel ventre molle dell’Ucraina sull’onda di un peace keeping che sa di beffa e sangue da obice. Putin, che se il suo gatto gli fa troppe fusa gli mette il polonio nel latte, di Gerasimov si fida ciecamente.

Perché Gerasimov non è un uomo, è solo il Putin pensiero condensato dentro una divisa ed affinato sul binario dell’efficienza. L’efficienza nel tradurre la visione di un cesarismo al caviale nel passo delle legioni di cui tutti i Cesare hanno avuto bisogno per disegnare il mondo come lo vogliono loro. O come lo vorrebbero.

Rasputin è non muore mai.

ALEXANDER LUKASHENKO

Alexander Lukashenko (Foto: The Presidential Press and Information Office)

Dove almeno Putin fa geopolitica lui ha fatto comparaggio di bullismo. Oppure, a metterla precisa, dove Vladimiro ha puntato a sfasciare l’Ucraina per tenerla lontana da Ue e Nato e vuole incamerarsi la Crimea come stato della Federazione, lui ha pensato solo a non rimanere solo. Perciò ha fatto di tutto per apparecchiare al Grande Cugino Potente tutte le circostanze che potessero favorirne le mire. 

Anche a potare le sue responsabilità passate, che dal 1994 ad oggi sono tante, nella guerra Russia-Ucraina Alexander Lukashenko è stato per Putin quello che Igor è stato per il dottor Frankenstein: un servo cieco, fedele ed implacabile nella sola mission che conosceva. Nella crisi fra Mosca e Kiev il presidente Bielorusso ha: offerto le basi del nord per l’ala più devastante della tenaglia militare russa, inviato i suoi spetznats a macellare gli ucraini travestendoli da carristi del VI Reggimento Lvov, offerto mezzi su ruota e carburante per incentivare l’offensiva della divisione cecena verso Kiev, messo batterie di razzi Iskander lungo il confine meridionale e lanciato contro la 101ma giallo azzurra. 

Questo senza contare che ha messo i suoi servizi a disposizione dei 120 tizi del gruppo Wagner che sono andati a fare merletto allo spot delle prime trattative del 28 febbraio, hai visto mai da lontano si vedesse la testa di Zelensky. In punto di politica e mainstream ha: preconizzato una terza guerra mondiale come diretta conseguenza del cul de sac in cui le nazioni sanzionatrici hanno messo Putin e apparecchiato un referendum smart con cui ha reso il suo paese “nucleare”, offrendo di fatto al “cuginone” la possibilità di lanciare dalla Bielorussia, cioè di centrare meglio l’Europa del Nord con i missili a medio raggio Screwdriver

Probabilmente ha anche girato lo zucchero nel caffè a Putin tutte le volte che Putin ha preso un caffè, scritto cento volte in bella copia “Transnistria” alla lavagna e lavato tutte le mimetiche dei fanti della 58ma armata del Caucaso, ma queste sono solo vili congetture di propaganda. Insomma, tutto ciò che si poteva fare per mettere Lukashenko nella casella dei partner malefici del grandi bulli della storia Lukashenko lo ha fatto. E ci ha guadagnato non la benevolenza di un popolo, ma quella di un capo, capo che non è eterno e che prima o poi lo lascerà proprio come lui nel servirlo non voleva rimanere: solo, come soli sono solo quelli che hanno sbagliato tutto.

Alessandro il Piccolo.