Internazionale, i protagonisti della settimana XLIX

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

UP

PUTIN-ERDOGAN

Recep Erdogan e Vladimir Putin

Da buoni amici si sono fatti il regalo di Natale in anticipo, anche se nessuno di loro due ha molto a che vedere con il Natale. Coi regali sì però, specie se di regali a se stessi prima che a terzi si tratta. In questo Vladimir Putin e Recep Erdogan, che qualcuno voleva far saltare in aria a Siirt proprio il giorno di Santa Barbara, sono imbattibili come elfi scafati. Cosa scarteranno i due gridando come bimbi? Il Mar Rosso, anzi la costa del Sudan che sul Mar Rosso affaccia.

La regola aurea in geopolitica è che un accordo commerciale vale tre guerre e sedici sermoni all’Onu quindi c’era solo da buttarsi in market e scegliere.

E quella zona, fresca fresca di golpe e instabile, perciò porosa alle lusinghe dei danè, la volevano un po’ tutti: Washington, Mosca, Teheran, il Cairo, Ankara. I porti del Mar Rosso lato Sudan sono strategia pura fatta ettari. E non è solo una questione legata alla mistica dello scrigno di materie prime, oro in primis, no: quei 714 chilometri che vanno dai confini del Sudan con l’Egitto a nord fino all’Eritrea a sud sono un affaccio sulla vena aorta del mondo.

Lo aveva spiegato benissimo all’AFP Ahmed Mahgoub, capo dell’Autorità portuale meridionale di Port Sudan: “I porti del Mar Rosso del Sudan sono un hub commerciale per i paesi vicini senza sbocco sul mare come il Ciad, l’Etiopia e la Repubblica Centro Africana“.

Ma come hanno fatto Putin ed Erdogan a fare la spesa in modalità discount? Giocando sull’irrequietezza del posto, come sempre, e ribassando il prezzo pur sapendo benissimo che quelle inquietudini politiche loro le avrebbero sedate in maniera brutale e spiccia. In soldoni: dopo la cacciata del presidente Bashir e la presa del potere dei militari tutto il Sudan è in vendita e c’è chi giura di aver visto agenti di Ankara “testare la forza ondulatoria” dei blindati governisti durante il golpe del 25 novembre.

L’area di Port Sudan

Il valore strategico era troppo alto, spulciamo qualche skill: la zona ha ospitato le flotte iraniane per decenni e il porto di Jeddah sul Mar Rosso si trova esattamente di fronte a Port Sudan. Insomma, chi piazza una pedina lì controlla il Medio Oriente che commercia e tiene a mordacchia chi volesse guerreggiare.

Il primo a fare la spesa è stato Putin: la Russia costruirà una base navale a Port Sudan con un organico di 300 persone tra militari e civili. Lo spot ospiterà naviglio a propulsione nucleare, ma non ferraglia diesel elettrica, bensì la “roba forte”: sottomarini multiruolo classe Yasen-M, bestioni nuovi di pacca da 120 metri ed ottomila tonnellate.

Poi è toccata al buon Recep ma in sincrono e in accordo con Vladimiro: dato che serviva una sentinella avanzata che e Putin voleva roba fiduciaria eccoti un bel contratto di locazione di 99 anni per l’isola di Suakin, alla faccia di potenze musulmane sunnite come l’Egitto che vedono Ankara come la pellagra. Cosa si farà lì? Manutenzione di edifici, moli per le navi e ristrutturazione degli edifici di epoca ottomana. E, dicono i soliti bene informati servizi giordani, test di lancio dei nuovissimi missili russi S-400 che la Turchia ha comprato in estate facendo marameo agli Usa.

A Natale puoi.

JOHN FITZGERALD KENNEDY

Foto US National Archives

Anche le buonanime se la godono, specie se qualcuno magari dopo 58 anni si ricorda di rendere pubblico come ci siano diventate, buonanime. E John Fitzgerald Kennedy non fa eccezione.

Lui come sia morto lo sa benissimo, ma sarebbe ora che lo sappiano anche gli americani. E’ il motivo per cui fra due giorni, il 15 dicembre e dopo l’ennesimo rinvio, la Casa Bianca rilascerà il files e i documenti secretati dal dicembre del 1963 sull’assassinio a Dallas del presidente Usa più iconico dell’era contemporanea.

No, non avete letto male: i documenti vennero secretati a dicembre e Kennedy venne cecchinato dall’ex marine Oswald il 22 novembre, ma le indagini della prima settimana furono “vive” e “coram populo”. Poi man mano che si scavava nella mota ci si accorse che non era il caso di fare cose pubbliche.

Joe Biden aveva anche spiegato, quando un mese fa aveva annunciato l’ultimo rinvio, che la data del 15 dicembre era stata scelta per non far coincidere la divulgazione con l’anniversario dell’attentato.

Il perché questa cosa sarebbe stata “irrispettosa” lo sa solo lui e qualche capoccia di Langley. Il posticipo ultimo era figlio di “ritardi causati dalla pandemia”. Cioè? I documenti erano in agenda pubblica per fine ottobre, ma il capo dell’Archivio centrale di Washington si era opposto, o almeno era toccato a lui dire che si opponeva.

Foto: US National Archives

Il motivo? Lo aveva spiegato in tandem con Mr President al Washington Post: “La pandemia ha avuto un impatto significativo sulle agenzie responsabili della revisione di ogni redazione dei documenti. Prendere queste decisioni è una questione che richiede un processo professionale, accademico e ordinato, non certo rilasci fatti in fretta”.

Biden aveva sottoscritto solenne e si era andati beatamente in deroga ulteriore dal John F. Kennedy Assassination Records Collection Act del 1992. Quella legge sancisce che tutti i documenti relativi ad omicidi di Stato negli Usa avrebbero dovuto essere divulgati pubblicamente entro 25 anni.

Tuttavia alla pentola c’era un coperchio: erano consentiti rinvii nei casi in cui “le preoccupazioni per la sicurezza nazionale superassero l’interesse pubblico alla divulgazione”. E siccome fino al 2019 qualche mafioso ferrato sull’argomento era ancora vivo, si è andati via via più in là.

Dallas 1 pm.

DOWN

LA SERBIA

Milorad Dodik

A Natale siamo tutti più buoni, meno la Serbia che buona buona ma proprio buona non lo sarà mai, poco da fare. E due esercitazioni antisommossa della polizia in meno di un mese e in stile “invadiamo la Polonia” lo ribadiscono chiaramente. Cosa vuole la Serbia? Tutto il mondo ai suoi piedi e un mezzo reich slavo sui Balcani, ma a parte questo attualmente a Belgrado interessa fomentare i serbi di Bosnia e riesumare i fantasmi di Sarajevo.

Facciamo come Enzo Tortora scarcerato e spadelliamo il nostro “dove eravamo rimasti”: la macelleria della ex Jugoslavia si era conclusa con un accordo di pace a trazione Usa nel 1995. Da quel patto erano nate due regioni: la Republika Srpska e la Federazione bosniaca-croata. Alle due regioni venne data ampia autonomia, tuttavia mantennero alcune istituzioni comuni, tra esercito, magistratura e fisco, cioè tutto, una roba che l’Unione Europea ancora oggi si sogna la notte.

Per evitare casini da colonnelli gasati la Bosnia ha anche una presidenza a tre, nel senso che a rotazione la carica è ricoperta da membri bosgnacchi, serbi e croati. E siccome il membro della presidenza serbo-bosniaca Milorad Dodik sostiene da anni la separazione della Republika Srpska e l’adesione alla vicina Serbia in barba ai veti degli Usa, ecco che briga con esercitazioni paramilitari.

Lo fa come a voler fare le prove generali di una secessione forzosa e di una repressione forzata di chi quella secessione non gradirebbe. Il 22 novembre il primo step: manovre “antiterrorismo” appena fuori la capitale Sarajevo, nella stazione sciistica del Monte Jahorina, cioè lo stesso settore da cui l’esercito serbo-bosniaco martirizzò Sarajevo nel conflitto del 1991-95.

L’esercitazione è stata roba soft: veicoli corazzati, elicotteri e personale delle forze speciali in uniformi mimetiche e armati di fucili d’assalto. E pochi giorni fa il bis: un’altra cazzimmata muscolare vicino a Mrkonjic Grad, nella Bosnia occidentale. Perché ad un serbo gli puoi dire di tutto, ma non lo convincerai mai che la Grande Serbia che sogna da sempre non è un sogno legittimo, ma un incubo da evitare.

Memento Mostar.

LA LOUISIANA

Se diciamo che la Louisiana ha sempre avuto problemi con le minoranze non scuotiamo nessun serpaio. Dai neri ai cajuns creoli passando per i nostri Sacco e Vanzetti lo stato icona di un certo Sud stereotipato, battelliero e cavallerizzo degli Usa ha sempre picchiato duro sulla giustizia nel nome di leggi tutte sue.

Leggi come quella che vede la Louisiana incarognirsi da sempre contro opportunità etica e giudicati federali. Spieghiamola: nel 2020 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che le giurie che non esprimevano un voto unanime erano incostituzionali, hai visto mai?
E i giudici avevano anche spiegato perché: lo erano perché agevolavano tra l’altro la pratica razzista di mettere a tacere le voci dei giurati neri e davano la stura a sentenze di morte o di ergastolo monche. In Louisiana la pena di morte è in vigore, anche se non la si applica ormai da 10 anni, ma la logica perversa della stasi criminale nel Braccio della Morte rende l’eventualità possibilissima e ancor più truce.

Inutile precisare che da noi popoli civili al di qua dell’Atlantico andare al patibolo o al gabbio a vita sulla scorta di un parere parziale in quanto a numeri è un abominio bello e buono, saremo barbari in altre cose ma in tema di Diritto i “meregani” ci spicciano casa. Le toghe altissime Usa avevano detto, cioè sentenziato, ergo ingiunto: “È importante avere un verdetto unanime della giuria perché è importante assicurarsi che non ci siano dubbi ragionevoli sulla colpevolezza di un cittadino”.

Un concetto ribadito anche a Fault Lines da Jamila Johnson, avvocato delegato di The Promise of Justice Initiative. Ma la Lousiana, boriosa e gasata dai campi di cotone su cui ha sperso il sangue di milioni di uomini, se ne fotte e preferisce fare storia a sé.
Lo spiega bene il New York Times: “Dopo la guerra civile, i politici bianchi negli Stati Uniti specie del Sud hanno approvato leggi per limitare i nuovi diritti civili dei neri americani, incluso il servizio nelle giurie. Nel 1898, la Louisiana istituì giurie non unanimi con l’esplicito scopo di sancire la supremazia della razza bianca”.

E il dato che arriva a festonare l’albero di Natale di un paese che ormai sa festeggiare solo Halloween è agghiacciante ed horror: in Louisiana sono almeno 1.500 le persone condannate da giurie non unanimi tutt’ora imprigionate, molte delle quali in attesa di sentenza di morte da anni. La decisione se rivedere o meno i loro casi spetta agli uffici dei pubblici ministeri e ai giudici locali, ma non uno di loro ha mai riaperto un solo caso.

Cotone nelle orecchie.