Internazionale, i protagonisti della XIX settimana MMXXII

I protagonisti della XIX settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XIX settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo.

UP

NICOLAS MADURO

Nicolas Maduro

Arieccolo. Si, ma che fine aveva fatto? Dov’era finito il protagonista indiscusso delle cronache internazionali che con il suo rivale Juan Guaidò si era giocato a briscola dal 2019 il ruolo di capo supremo del Venezuela? Semplicemente è sempre stato là. Perché mentre i media mondiali pian piano abbandonavano colpevolmente l’usta della situazione di quel tormentato Paese lui, il presidente chavista Nicolas Maduro, semplicemente ha fatto lo scoglio.

In che senso? Nel senso che ha resistito ad ogni ondata di risacca: alla guerra civile innescata dal suo rivale sponsorizzato dagli Usa, agli attentati ed alle diserzioni dei generali, all’embargo Usa sul petrolio, alla Cia ed al Covid che ha spazzolato il suo Paese in cui i vaccini erano pochi e o russi o cinesi. E perché Maduro è tornato mainstream? Semplicemente per la stessa cosa per cui lo era diventato quando Guaidò si era autoproclamato presidente con la benedizione di Washington salvo poi perdere pezzi per strada e fallire miseramente: per il petrolio

Oggi che con la guerra della Russia all’Ucraina il petrolio è diventato più che mai discrimine geopolitico un Paese che di petrolio ha fontane come il Venezuela è tornato ad essere motivo (pardon, movente) di interesse planetario.

La mossa magistrale
Nicolas Maduro (Foto: Eneas De Troya)

Si, ma cosa è successo e perché Maduro, che non è Ghandi, sta negli Up? Perché ha saputo sfruttare il conflitto fra Mosca e Kiev e la posizione degli Usa nel medesimo in maniera magistrale. Lo ha fatto allettando un perplesso ma non troppo Joe Biden con l’esca più grassa ed untuosa del mondo giusto nelle ore in cui il nostro Mario Draghi gli chiedeva di staccare dal frigo il post it sul gas liquido per l’Italia.

Non sappiamo se di due si sono parlati, ma se lo avessero fatto in iperbole narrativa Maduro a Biden gli avrebbe fatto più o meno così: “Scolta Joe, tu hai confermato le sanzioni emesse da Trump contro il mio Paese ed embargato il petrolio con cui le tue compagnie facevano i soldi con la pala ma adesso hai un problema. Devi liberare asset preziosi perché le restrizioni imposte al mio amico Vladimir stanno inaridendo il mercato ed hai le compagnie petrolifere, su tutte la Chevron, che ti implorano dirimuovere almeno parte delle sanzioni comminate“. 

Poi sornione sotto i baffi da rivoluzionario affarista e col sorriso da “tiburon”: “Insomma Joe, se togli petrolio da una parte lo devi cercare da un’altra, è tutta una questione di equilibri che tu, pur ottuagenario a volte un po’ bamba, sai benissimo. E quindi Joe, a dirla tutta: e se facessi finta per un attimo che io non sia un demonio comunista liberticida e mi sbloccassi l’export? A te farebbe benissimo e a me male non farebbe, poi a cose più calme riprenderemmo a scornarci e mi rimanderesti la Cia sul ponte di Tienditas“. 

Il risultato? Secondo The Economist pare che a breve una delegazione Usa ed una venezuelana si incontreranno a Trinidad-Tobago per discutere la faccenda con la scusa paravento della liberazione di alcuni funzionari che il Sebin venezuelano trattiene. Perché il mondo oggi va così: nel suo gigantesco motore non pompa etica, ma petrolio, e per un tiranno da abbattere a Mosca oggi ce n’è un altro di riabilitare a Caracas.

Il pieno, grazie.

LA CIA

Di certo qualcuno lo ricorderà: quell’aeroporto in Ucraina che nelle ore pazze e frenetiche dall’invasione del 24 febbraio venne messo in tacca di mira dalle truppe della Federazione. Era quello di Hostomel, proprio dove la prima ondata russa aveva previsto un blitz molto veloce e molto segreto degli spetznats russi. Dovevano creare una testa di ponte e, dice Nbc, una loro squadra doveva uccidere Volodymyr Zelensky ed assicurare la presa quasi indolore del potere ad un governo fantoccio. 

Arrivarono sul cielo di Hostomel silenziosi come serpenti e dopo un lancio Halo da un cargo presero posizione dopo aver lasciato le vele brunite… e ad attenderli ci trovarono gli ucraini che li decimarono come piccioni da mollica. Che significa quando un segreto segreto non è più? Di solito due cose: o che ne hanno parlato suocera e nuora dal parrucchiere o che di mezzo c’è la Cia

Ed a certificare la seconda opzione, svelando il segreto è stata… proprio la Cia, che forse per la prima volta nella sua storia ha ammesso di aver fatto il suo lavoro in barba ad una mission per cui il lavoro si fa ma non si dice. Va fatta una prima considerazione dopo le ammissioni di Langley sulla guerra in Ucraina che un funzionario ha definito “rivoluzionaria”. 

Le barbe finte in Ucraina
La sede dell’Agency

Ed è quella per cui il fatto che quella forma di collaborazione sarebbe molto meno “segreta” di quanto non faccia presupporre la mistica delle barbe finte lascia pensare che da Washington vogliano che si sappia “sfacciatamente” che gli Usa stanno aiutando Kiev

Poi ci sono gli ambiti operativi che spiegano molti teatrini. Come e quando la Cia ha aiutato gli ucraini? Ad esempio nel fornire immagini satellitari e dati sulla posizione esatta delle unità russe. Il che, secondo gli analisti, poi spiegherebbe perché durante la guerra è morto un numero così alto e “mirato” di alti ufficiali divisionali e generali di Mosca, gente che di solito per stanarla ci vuole Albus SilenteDavvero abbiamo pensato solo per un attimo che centrare un mostro di contromisure come la Moskva nel Mar Nero fosse roba da stormo di beccaccini? Ma la Cia è andata oltre: ha assicurato una maggior protezione al solo uomo che tiene l’Ucraina ancorata alle logiche atlantiche estreme: Volodymyr Zelensky, su cui è scattata l’ammissione del funzionario di Langley medesimo riportata fedelmente da Nbc.

Ebbene si, di concerto con i guardoni a 24 carati della Nsa il servizio segreto americano con ambito estero “contribuisce alla sua sicurezza, suggerisce come proteggerne i movimenti, cerca di impedirne la localizzazione” e secondo Nbc “probabilmente fa ricorso anche ad apparati elettronici per evitare le intercettazioni e il tracciamento“. Notare l’uso del presente nel virgolettato: non lo hanno fatto in date circostanze, lo stanno facendo ora e da sempre.

Insomma, che in quasi tutte le guerre del mondo, accovacciate a spiare, ci siano le barbe finte Usa non è mai stata una novità, ma che ci siano guerre in cui quelle barbe cadono a terra e Zio Sam la dice tutta e dice con chi sta è fatto più raro. E al di là di cosa muova quei tipi loschi, bisogna ammettere che finora hanno lavorato bene.

Mission possible.

DOWN

LE PARATE

La parata della vittoria a Mosca (Foto: Ria Novosti)

C’è stata un’epoca in cui fare le parate militari sembrava il giusto coronamento di un sogno di potenza delle nazioni al fascino del quale neanche noi foresti o comuni mortali restavamo immuni. Poi è accaduto che pian piano gran parte del genere umano, noi compresi, è rinsavita ed abbiamo iniziato a vedere le parate militari per quelle che sono, inutili e barocche ostentazioni della sola cosa che uno stato dovrebbe evitare come la peste: la sua capacità di distruggere o di fare argine a qualcuno che vuole distruggere.

Inutile girarci intorno, è roba priapesca che solo Freud potrebbe spiegare senza cadere in mestizia: ognuno sfoggia il suo missilone eretto e manda al mondo un segnale di imminente stupro: della bellezza, della quiete, del diritto a vivere e della voglia di farlo in armonia. Dieci giorni prima che Vladimir Putin tirasse fuori dalla mutanda il suo gigantesco Sarmat ci aveva pensato quell’altro sciroccato di Kim Jong Un a calarsi le braghe, aprirsi il cappotto e mostrare al mondo il suo Hawsong 17, e neanche un mese prima dal Pentagono avevano fatto sapere che Joe Biden stava dando il borotalco al suo Minuteman II, pronto a dare pisellate ai suoi avversari perché lui “ce l’ha più grosso di tutti“, il missile nucleare.

Già, perché non parliamo di piselli, il che renderebbe già la cosa mesta, ma di missili atomici, roba che rende la faccenda tragica. Sono armi che vengono fatte sfilare e che vengono ostentate con il grip pubblicistico di una lavatrice che sta nel libro dei sogni delle massaie. E invece basterebbe rendersi conto che quella è roba che sta nel libro degli incubi di tutto il mondo, basterebbe quello per capire che se prima e da sempre la guerra è la soluzione peggiore oggi la guerra è la soluzione finale. E noi vogliamo vivere litigando, non morire avendo ragione.

Posa quel coso.

BONGBONG

Non potremmo parlare di Bongbong e di quello che è diventato senza prima dire di chi Bongbong è figlio, non potremmo farlo perché ci perderemmo il gusto amaro di constatare una cosa che nella storia umana è ricorrente. Le dittature nascono e muoiono ma i dittatori muoiono sempre e solo a metà, perché prima o poi arriva un’epoca in cui qualcuno rimette il loro lascito al centro dei desiderata delle nazioni e lo fa travasare nei loro eredi. 

Eredi che poi, nella nuove forme democratiche figlie della morte dei loro padri, si insediano esattamente al loro posto. Ecco, a Bongbong è andata esattamente così. Il 17mo presidente delle Filippine eletto in questi giorni con un mezzo plebiscito non si chiama Bongbong. No, quello è il nomignolo che gli diede suo padre. Glie lo appioppò quando da bambino tendeva sempre a stargli aggrappato sulle spalle, come una canna di bambù che in “tagalog” indica proprio i contenitori cilindrici usati dalle donne per acqua ed altro, i “bongbong” appunto. 

Lui invece si chiama Ferdinand Marcos, paro paro come suo padre a fare la tara al “junior”, “quel” Ferdinand Marcos là. Insomma, il dato empirico è che il figlio del dittatore filippino scacciato dalla Rivoluzione del Rosario negli anni 80 è stato eletto presidente di quelle stesse Filippine che di Marcos patirono il giogo per tre mandati consecutivi. 

Peggio era difficile

Il dopo Duterte era faccenda difficile nell’arcipelago: pandemia, crisi economica e terrorismo islamico avevano fiaccato il Paese e l’ultimo presidente non era certo un Montesquieu. Quello che perciò ci si aspettava era che i filippini, strangolati da una presidenza capestro e da una storia pessima, svoltassero in senso democratico. Illusi noi a crederlo e disillusi loro a non crederci neanche un attimo. 

A dimostrazione che l’aura dell’uomo forte funziona soprattutto nei momenti bui, i filippini hanno eletto presidente con il 90,1% delle preferenze e 28,8 milioni di voti Ferdinand Marcos Junior, detto “Bongbong”, figlio del defunto dittatore Ferdinand Marcos e di sua moglie Imelda, anch’essa controversa governante di lungo corso. E poco importa che quest’ultimo avesse fatto arrestare dissidenti, abolito la libertà di stampa, varato la legge marziale e fatto battere gli oppositori come tappeti. 

Quello che i filippini hanno voluto ricordare è che sotto Marcos senior le cose andavano meglio per l’economia (grazie a Washington) e che “quando c’era lui i treni almeno arrivavano in orario“. E per avere di nuovo quei treni là gli elettori hanno perso questo treno qua, quello del progresso, e si sono messi in casa Bongbong, che non è detto che sia come suo padre, ma che se qualcosa ha imparato lo ha fatto un po’ da Oxford dove ha studiato, un po’ da lui. E da chi abbia imparato meglio non è dato saperlo. Non prima che magari sia troppo tardi.

O delfino o squalo.

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