Internazionale, i protagonisti della XVI settimana MMXXII

I protagonisti della XVI settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XVI settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo


UP

JANET YELLEN

Janet Yellen (Foto: Britt Leckman / Federal Reserve)

La signora in questione è stata Presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti, non proprio roba da casella delle opportunità al Monopoli. Perciò quando Janet Yellen ha deciso di parlare della guerra in Ucraina e di quelli che non si sono schierati dalla giusta parte molte orecchie si sono rizzate nel pianeta. Si sono rizzate anche perché nel frattempo madama Yellen non è rimasta a girarsi i pollici ed in corso d’opera è stata chiamata da Joe Biden a fare il Segretario del Tesoro

Cosa ha detto la Yellen che tra l’altro vuole boicottare i summit del G20 se putacaso ci trovasse seduto anche il rappresentante di Mosca? In buona sostanza che i finti tonti che all’Onu hanno preferito astenersi dal condannare le azioni della Russia di Putin resteranno intontiti dalle scoppole che arriveranno sulle loro nuche. E fin qui il pistolotto didascalico e mainstream all’indirizzo di una ghenga nota ma senza onomatopea diretta. Che significa? Che la Yellen non è certo la prima a cazziare i Paesi che hanno deciso di non applicare le sanzioni contro la Russia che fa la guerra all’Ucraina, ma è stata la prima a scremare dal mazzo quelli che nel farlo hanno avuto più colpe e subiranno più conseguenze. 

Muscolarità pratica
Il Senato degli Stati Uniti d’America (Foto: Eric Haynes)

Chi sono? La Cina e l’India. Insomma, alla Yellen non è importato più di tanto puntare l’indice contro Paesi comunque importanti come Brasile, Sudafrica e Turchia, che pure si erano astenuti. No, lei ha sfoderato le zanne e puntato dritta alla gola dei tipi grossi della teppa, in particolare contro Pechino. E nel dipingere il governo cinese la signora Yellen, che è di Brooklyn ed ama il Texas, ha massimizzato la combo ed usato una metafora “gangsta e vaquera” che è stata un vero capolavoro.

Un capolavoro di quella muscolarità pratica e fattuale che tanto sembra mancare al suo capo, sperso invece in giudizi millenaristici più truci che utili. Ha detto la Yellen: “Stiano attenti quei Paesi, uno in particolare, che oggi se ne stanno seduti sullo steccato, sperando di ricavare qualche guadagno dalla guerra. Lasciatemi dire alcune cose a questo Paese in particolare, la Cina, che pensa di scorgere in questa situazione dei vantaggi, preservando la propria relazione con la Russia e riempiendo i vuoti lasciati da altri. Queste motivazioni sono miopi“.

Poi una chiosa ibrida fra stiletto e mannaia: “Qui è in gioco il futuro del nostro ordine internazionale, sia in termini di una sicurezza pacifica che in termini di prosperità economica. Questo è un sistema che porta benefici a tutti“. 

Insomma, con la pace non ci guadagna solo l’etica, ma anche gli affari. Però solo se hai il buon senso di tenerti amico chi fa più affari di tutti al mondo e di perseguire la pace che vuole lui. 

Xi dormi preoccupato.

INGER ANDERSEN

Inger Andersen (Foto Luc Valigny © Unesco)

La signora Inger Andersen è Il Direttore Esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP). Ha presieduto da poco la Quinta Sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente che aveva in agenda un tema mondiale e mai preso troppo sul serio: la plastica. Diamo qualche cifra per rendere serio il preambolo invece di limitarci ai gargarismi da new economy del dopo Covid: ogni anno vengono prodotte circa 400 milioni di nuove tonnellate di plastica

La cifra in punta di stima è destinata a raddoppiare entro il 2040. Meno del 10% della plastica viene riciclata. E il resto? Bruciato o scaricato sulla terraferma dove spesso finisce nei fiumi e sfocia in mare e va alla deriva in tutto il mondo che alla deriva ci sta andando proprio perché affronta i grandi temi una tantum e solo di logorrea, vedere la crisi Ucraina. 

Avevano provato a non buttarla in chiacchiere a Nairobi lo scorso 22 febbraio e se ne erano usciti con una bozza quadro per un accordo sulla plastica da attuare, poi era scoppiata la guerra di Mosca a Kiev e la plastica, che dell’universo grigio verde è la nuova regina regina, era tornata ad arretrare come problema e a giganteggiare come materiale. Vi stupireste a scoprire quanta plastica c’è in un carro armato moderno, in un drone o in un sistema lanciamissili spalleggiabile.

La plastica dimenticata
Foto: Sergei Tokmakov

Più di 50 Paesi del mondo (pochissimi) sono a favore di un trattato che includa nuovi severi controlli sulla plastica, che è in gran parte derivata da petrolio e gas, roba cioè che di questi tempi vale più per come scalda che per quanto inquina.

Ha detto Andersen: “Fermare il rubinetto di plastica è fondamentale, se continueremo a inquinare a monte ed a pulire a valle resteremo in stallo in quanto ad iniziative e sotto scacco di una produzione annuale che sarà sempre maggiore degli sforzi per controllarla, e di certo lo sforzo bellico multinazionale di questi giorni non aiuta“. 

Insomma, il nuovo principio che deve prevalere una volta per tutte ed in maniera ecumenica è che non si svuota un secchio sotto la gronda del mare, ma si va direttamente a prosciugare il mare o a fare del mare bacino. Modellare il mondo invece di truccarlo costa un po’ di più ma sa meno di pannicello caldo per le parabole collutorie di potenti che dell’ambiente vogliono solo parlare quando diventa amo per qualche applauso o qualche scheda in più in urna.

Visione plastica.

DOWN

SINGAPORE

Singapore da Marina Bay sands (Foto: J. Philipp Krone)

Il panorama musicale italiano è pieno di canzonette un po’ sceme in cui il loop serviva per lo più a far canticchiare un ritornello senza particolari aspirazioni di senso compiuto. Ecco, “Singapore” dei Nuovi Angeli, per chi fra i lettori più canuti ne ricordasse strofetta e note, è una di quelle. Scritta nel 1972 con l’insospettabile contributo di una testa pensante ma all’epoca in deroga come Roberto Vecchioni era tutta incentrata sulla strofa “Singapore, vado a a Singapore, che mania di fare l’amore” e via di briscole di pentagramma facili facili.

L’amore si, ma solo amore etero dato che a Singapore, quella vera e non quella fricchettona osannata dai nostri capelloni amatriciani, l’amore ha una sola direttrice in punto di diritto. Colpa della legge 377/A, una norma del 1938 che criminalizza il sesso tra uomini come un “atto di grave indecenza” punibile fino a due anni di carcere. E la colpa non è solo di Singapore, ma del Regno Unito. 

Spieghiamola meglio: negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, anni in cui Singapore era parte dei dominions di Sua Maestà, la Gran Bretagna considerava l’omosessualità un reato. Ne fece la spese Alan Turing, il crittogenio matematico che da Bletchley Park mise a punto Bomb, la macchina che decrittò il cifrario della indecifrabile Ultra nazista. 

O carcere o castrazione
Alan Turing

Turing era gay e lo ammise durante una denuncia per furto nel 1952: fu costretto a scegliere fra due anni di carcere o la castrazione chimica e scelse la seconda opzione.

Mentre il Regno Unito si adeguava lentamente all’andazzo dei Paesi civili negli ex dominions la legge anti gay rimase. Come a Singapore, britannica fino al 1963 e britannicissima ancora oggi in quanto ad intolleranza. La città stato indonesiana oggi è il luogo del pianeta con la più alta concentrazione di miliardari, un posto paradossale cioè dove cioè il denaro circola liberamente ma l’orientamento sessuale è ad un solo binario. 

Nel 2007, il primo ministro Lee Hsien Loong giurò che il suo governo non avrebbe “applicato in modo proattivo” la legge 377A, ma è evidente che una semplice inertizzazione di comodo di un legiferato abnorme non basta. Lo ha detto a chiare lettere Clement Tan, portavoce del gruppo per i diritti LGBTIQ con sede a Singapore Pink Dot: “Quella legge va abrogata“.

Quella e magari, in iperbole per carità, anche certe canzonette sceme che per trovare un ritornello mettono assieme l’amore e i posti che l’amore lo ammazzano.

Sono solo canzonette (forse).

LA PROPAGANDA DI GUERRA

Capiamoci, stupirsi e magari indignarsi su come una cosa orribile di suo come una guerra diventi ancor più fetida perché nel combatterla ognuno spara balle oltre che palle di cannone è da grulli. La guerra, anzi, tutte le guerre sono così: sono Dame Nere con lo strascico lungo ed attaccate a quello strascico ci sono le responsabilità vere e quelle costruite, i fatti e le iperboli, i moventi ed i motivi, tutti mischiati a tintinnare tetri in difetto di discernimento. 

E’ un difetto che fonda molto sulla condizione di base della guerra e la macelleria ucraina non fa eccezione: durante un conflitto la possibilità di conoscere la verità è resettata dalla difficoltà logistica a perseguirla. In televisione oppure sul web noi vediamo stacchi e frames che rispondono anche a precise esigenze “scenografiche” ed emozionali, ma il concertato nella sua interezza non lo sapremo mai. 

Ci sono tre piani cognitivi per affrontare un conflitto e farsene un’idea generale ma bastevole a maturare una opinione più o meno consapevole: i governi (gli eserciti ne sono solo un’estensione), i media e chi la guerra ce l’ha intorno perché vive dove la guerra viene ad abitare. E sono tutti e tre piani “falsati” dal principio di indeterminazione di Heisenberg, per il quale nel momento in cui studi un sistema complesso tu lo cambi perché anche senza volerlo ci metti qualcosa di tuo, del tuo vissuto, della sua specificità. 

La guerra social
Foto: Ukraine Now

Però c’è un dato in più: questa della Russia all’Ucraina è la prima guerra occidentale interamente social della storia. Ed è una guerra in cui la massa delle informazioni che tendono legittimamente a spostare l’asse delle ragioni a proprio favore e quello dei torti a favore del nemico è talmente immensa che non potrà mai essere filtrata neanche grossolanamente per avere una “bozza di base” da cui partire per maturare un’opinione compiuta. 

I bombardamenti, la tipologia di armi, le efferatezze bilaterali, i successi o gli insuccessi sul campo, le ideologie-cappello, le vere finalità delle comunicazioni governative, tutto diventa una palta bigia in mezzo a cui la verità galleggia in forma di piccole perle colorate, come pepite d’oro nella roccia inutile. 

E chi opera su questi piani, sia esso un Peskov al Cremlino o un marine della 36ma brigata ucraina, sa che in quel momento lui non sta dicendo bugie, sta solo combattendo una guerra con una delle cento armi con cui una guerra va combattuta. E fra piombo e propaganda ci siamo noi, che inquadriamo il fenomeno anche a seconda di come siamo collocati nella società e della direzione del nostro vissuto. 

Chi ci rimette come sempre è la verità, e con essa chi tutti questi rovelli non se li fa perché la guerra gli arriva dritta addosso e gli ammazza un figlio o una moglie o un fratello. Perché le bugie in tempo di pace sono roba che possiamo smascherare o addirittura tollerare, quelle in tempo di guerra sono roba che possiamo solo mettere in casella di pensiero critico ed attendere che sedimenti dalla virulenta cronaca alla serena storia. Così non saremo vittime della propaganda, né carnefici della verità.

Cronaca no, storia si.

error: Attenzione: Contenuto protetto da copyright