Internazionale, i protagonisti della XXVIII settimana MMXXII

I protagonisti della XXVIII settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XXVIII settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo.

UP

CISCO-IBM

Lo dicono in molti e non c’è ragione apparente per non credere a questo teorema: dove a fermare la Russia non arrivano le diplomazie cervellotiche ci potrebbe arrivare il crash dell’economia russa. Insomma, per vincere una guerra o impedire che gli effetti della stessa vadano avanti ci sono diversi modi, e uno lo stanno attuando Cisco ed Ibm. 

L’antefatto è di questi giorni: tutte le società hi-tech russe che utilizzano sistemi Cisco e IBM non sono state in grado di rinnovare le licenze. La notizia l’ha data Vedomosti ed ha un impatto, oltre che un senso dato che di sanzioni a Mosca parliamo.

Ma cosa producono Cisco ed Ibm? In particolare Cisco Systems è noto principalmente come produttore di apparecchiature di comunicazione, ma anche router, switch, soluzioni di telefonia IP, soluzioni di sicurezza di rete, modem via cavo, punti di accesso Wi-Fi e altro ancora. Ecco, quello per cui alle aziende russe non è più possibile rinnovare le licenze è roba che se manca fa male insomma.

E Ibm? L’americana International Business Machines Corporation produce server basati sull’architettura a microprocessore IBM Power. Si tratta di apparecchiature che coprono circa il 10% del mercato russo dei sistemi di archiviazione dati e delle soluzioni server. Quasi inutile precisarlo: le licenze che oggi le aziende russe non hanno più sono necessarie per continuare a lavorare, in caso contrario, nel tempo, alcune apparecchiature potrebbero smettere di funzionare. 

Le conseguenze dello stop
Foto: Mikhail Nilov / Pexels

E attenzione: si tratta di licenze che non possono essere acquistate tramite terzi, perché se i produttori rilevano hacking o modifiche del firmware, possono spegnere l’apparecchiatura da remoto. 

Lo ha spiegato bene il direttore esecutivo della “Internet Defense Society” Mikhail Klimarev: “Il problema sono soprattutto i sistemi bancari e le agenzie governative, in generale l’assenza di una licenza non minaccia nulla di particolare. Per rinnovare la licenza, puoi hackerare l’attrezzatura, esiste uno schema del genere, anche se fino ad ora una grande quantità di attrezzature è stata piratata. Ma questo è un male, ovviamente, perché da qualche parte l’attrezzatura smetterà di funzionare“. 

Chi sta pagando in Russia per il fermo? Aziende giganti come Rostelecom e Transtelecom, che adesso sono arenate e non sanno più a quale santo rivolgersi per tornare in regime di operatività perché le aziende gemelle oppure omologhe di Cisco ed Ibm sono quasi tutte a Taiwan. E Taipei è nemica della Cina che è molto ma molto amica di Mosca. 

Mosca che sta sperimentando forse per la prima volta in maniera concreta la differenza fra essere la Russia ed essere Vladimir Putin, derogando da un meccanismo di identificazione perfetta che finora aveva fatto le fortune di ogni scelta corsara del capo del Cremlino. Che ha sempre preteso di parlare ed agire in nome del suo popolo grande e della sua élite di affaristi al caviale.

Attacco alla gola.

I LAKOTA

Foto Herman Heyn

Poche volte ci abbiamo riflettuto perché il terzo millennio ci ha incafoniti, ma la globalizzazione ha anche delle implicazioni storiche, nel senso che spesso le esigenze insopprimibili della prima riesumano questioni e snodi che già hanno lasciato cicatrici sul cammino dell’uomo. Cicatrici come quella sul cuore del Lakota, delle loro Black Hills e degli eterni appetiti dell’Occidente verso posti che altri vedono come santuari. 

E’ sempre stato così, in loop: a chi in certi posti ci abita da sempre interessa lo spirito che ci abita; a chi ci arriva dopo e confonde civiltà con progresso interessano le ricchezze che le geologia ci ha messo a tana sotto terra. Una volta era l’oro e la sua fame innescata dalla necessità degli Usa di crescere, oggi è il litio e il bisogno degli Usa di combattere Russia e Cina sul terreno delle terre rare e dei materiali hi tech. 

Le vittime? Sempre e solo loro: i Lakota. Nella mistica western a cui ci hanno abituati li conosciamo come Sioux, gli “indiani” assaltatori di diligenze e scotennatori di trappers, per capirci in vulgata cretina. E le Black Hills? Sono le Colline Nere, le sacre He Sapa rubate dai coloni, oggetto delle guerre indiane di fine ‘800, teatro di stragi innominabili ed oggi spot di contesa per rinnovati appetiti. Capiamoci: per un Lakota le Black Hills hanno lo stesso valore che per noi oggi ha la basilica del Poverello ad Assisi. E di certo noi non faremmo salti di gioia se qualcuno ci dicesse che bisogna trapanare lì sotto a caccia di metalli. Anzi, probabilmente non avemmo problemi a fare noi i Lakota e a scotennarlo.

I monti di Cavallo Pazzo e Toro Seduto
Foto: Navin75 / Flick

Nelle Black Hill nacquero uomini mistici come il guerriero Tashunta Uitko (Cavallo Pazzo) Tatanka Yotanka (Toro Seduto) ed il grande sakeem Nuvola Rossa, uno che per certi versi può essere considerato un Cesare pellerossa, il più grande capo militare della nazione Oglala. Dopo mille ruberie nel 1980 la Corte Suprema aveva deciso che i Lakota andavano risarciti per l’espropriazione illegittima e macellaia delle Colline Nere consumata nella seconda metà dell’Ottocento, quando i bianchi si lanciarono nella corsa all’oro. Quel fondo, mai riscosso, oggi è lievitato oltre il miliardo di dollari. 

E i nativi chiusi nella riserva di Pine Ridgriponevano grandi speranze nell’amico Joe Biden. Hanno fatto male. Perché? Perché dopo l’attacco russo all’Ucraina le esigenze energetiche degli Usa sono tornate ad essere tiranne cieche, perciò Biden ha detto invocando il Defense production act: “Dobbiamo adottare tutti gli strumenti e le tecnologie che possono liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili e dobbiamo porre fine alla dipendenza dalla Cina e da altri Paesi“. 

Con quella legge risalente alla Guerra Fredda in punta di ugola il capo della Casa Bianca ha lanciato una nuova campagna per le estrazioni di litio. E dove si trovano i più grandi giacimenti di litio del paese? Esatto: sotto le Black Hills che sono tornate a diventare una cattedrale stuprata da chi aveva promesso di salvare almeno la sagrestia. 

Ma i Lakota non ci stanno e per bocca dei rappresentanti chiedono udienza al “Grande Capo Bianco“. Una udienza che finora non è stata concessa a chi abitava quella terra quando gli antenati di Biden si accendevano la pipa di radica in qualche bosco alsaziano. Perché è sempre andata così al mondo, con il diritto dei popoli che deve piegarsi alla spocchia di chi a quei popoli ha messo la museruola. 

Arrivano i vostri.

DOWN

QANON

Ci giochiamo di nuovo?“: con questa frase sciroccata è riapparso da qualche giorno su 8kun, una bacheca social anonima. E lo ha fatto nei giorni in cui Donald Trump è davanti ad una commissione a spiegare come mai il 6 gennaio del 2021 centinaia di matti molti dei quali armati irruppero in Campidoglio a Washington. Perché la vittoria di Joe Biden a loro proprio non andava giù.

A tornare sveglio e letale come Onofrio del Grillo nel film, non è stato uno qualunque, ma lui in persona: Qanon. O meglio, colui che si ritiene sia il padre fondatore della setta più fuori di brocca degli Usa. Fin qui il racconto sta a metà fra l’Enigmista e una scadente incursione nella parte più deteriore dei social, quella che a ben vedere neanche da noi difetta di tastiere disarticolate dal cervello.

Poi però uno si studia i dati statistici e scopre che nel 2017, quando Qanon apparve, un americano su cinque credeva a ciò che diceva. A fare i conti della serva già cinque anni fa c’erano oltre 100 milioni di cittadini Usa per i quali esisteva una “cabala internazionale” di pedofili dem guidata da Barak Obama ed Hillary Clinton che trafficava con i bambini per i suoi innominabili appetiti sessuali. Perciò il fatto che Qanon sia riapparso negli Usa ad uno sputo dalle elezioni di mid-term è molto più che un’uscita bislacca su cui ridacchiare con sufficienza.

Il ritorno del profeta

E lo hanno capito perfino i seguaci di QAnon, le cui bacheche Telegram si sono illuminate di commenti di estasi in modalità “il nostro profeta è tornato. Sono quegli stessi i cui rappresentanti più beceri arrivarono sotto al Campidoglio sfoggiando cartelli. Con una scritta: “Mi ha mandato Qanon“. E che a tornare sia tornato uno dei padri della teoria complottista semplicemente un emulo con il dono della tempestività poco cale. 

Quello che conta è che gli Usa stanno facendo di nuovo i conti con una delle loro molteplici facce peggiori e in un periodo in cui il peggio degli Usa, aborto delegittimato ed armi a go-go, è già sulla cresta dell’onda. E quando qualcuno decide di surfare quelle onde da ridere c’è davvero poco.

S’è svejato…

UBER

Foto: Thomas Hawk

Sopra tutti, sopra e prima di tutti, ad ogni costo, in ogni modo e con ogni mezzo. l’International Consortium of Investigative Journalists, quello dei Pandora Papers, per capirci, fa un’altra tana e mette mano su 124mila files che dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio una cosa: che il lobbyng estremo fa male alle economie ed alle etiche delle nazioni. Poi quando a quel lobbyng gli fanno bingo, esso fa male a chi lo ha fatto perché ci sono combriccole di giornalisti che il loro lavoro lo sanno fare maledettamente bene. 

Ma di chi sono quei files roventi? Chi voleva stare sopra a tutti? Uber, che fra il 2013 ed il 2017 avrebbe portato avanti una gigantesca campagna di pressione ed influenza anche su leader politici per diventare un’azienda leader del settore di trasporti, sconvolgendo il settore dei taxi. In quegli anni il colosso del car sharing aveva come nocchiero uno talmente spregiudicato che a paragone Jordan Belfort pareva Memo Remigi: era Travis Kalanick. 

Tanto mannara fu la sua politica aziendale che oggi Uber, che pure per ovvie ragioni capitalistiche è azienda bucaniera di indole, si è affrettata a dire in ordine alla gigantesca inchiesta: “Non abbiamo e non creeremo scuse per comportamenti passati che chiaramente non sono in linea con i nostri valori attuali. Chiediamo invece al pubblico di giudicarci in base a ciò che abbiamo fatto negli ultimi cinque anni e cosa faremo negli anni a venire“. 

Colpito ma non affondato

Insomma, il mantra è “colpito ma non affondato perché ora c’è un nuovo nocchiero che regala caramelle ai bambini e salva i gatti sugli alberi“. Emulando un mood parabolante di ben altro contesto potremmo dire che a quel tempo Uber ne avrebbe incasellate tante: sfruttamento della manodopera, violazioni dei diritti dei lavoratori e deregulation del mercato del lavoro. Insomma, tutta una serie di strategie con cui Uber avrebbe adottato tecniche di pressione politica estremamente aggressive e di interazione con politici ed istituzioni. 

Attenzione, tutto ciò per il momento resta deprecabile in casella etica e non profilabile in casella giudiziaria. Però il dato di base resta. Uber avrebbe inquinato il mercato e blandito politici, gente del calibro di Emmanuel Macron per capirci. Che da ministro dell’Economia avrebbe promesso all’azienda che avrebbe modificato le regolamentazioni sui trasporti. A che scopo? Favorire l’ingresso di Uber nel mercato francese. 

O Gente come Matteo Renzi, che da premier ma senza alcun legiferato in favore di Uber si sarebbe giovato di un super lobbista come stratega della campagna elettorale per il referendum costituzionale del dicembre 2016. Insomma, Uber puntava a stare sopra gli altri. A vincere facile ed a prendersi il mercato ad ogni costo. E alla fine quel mondo che sperava di controllare gli è venuto a sbirciare sotto il tappeto. E ha fatto vedere a tutti la polvere.

Uber Alles.