Internazionale, i protagonisti della XXX settimana MMXXII

I protagonisti della XXX settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XXX settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

UP 

RECEP ERDOGAN 

Recep Erdogan (Foto © Chatham House)

Fino a poche settimane fa chiunque con le faccende diplomatiche mondiali avesse dimestichezza di superficie se ne usciva con un mantra da taverna: “Se le trattative fra Russia ed Ucraina sono affidate a quello allora siamo messi davvero male“. E un po’ di senso questi scampoli di saggezza geopolitica da bettola tutto sommato ce lo avevano. 

Ce lo avevano perché la premiership diplomatica di Recep Eerdogan nel conflitto di Mosca contro Kiev è anche figlia delle paresi sul tema, di dolo e di colpa, delle grandi democrazie occidentali. Insomma, il presidente della Turchia è diventato un paradosso vivente: da un lato è icona di quelle formule di governo dove la democrazia la si proclama molto e la si pratica poco; dall’altro è il solo leader del pianeta che sia salito sul ring dei due contendenti a provare la difficile via del dialogo mediato. 

Questo elemento non discutibile ha schiuso la porta a due letture, empiriche ed un po’ amarognole: la prima è quella per cui non è affatto vero che i successi diplomatici debbano avere sempre e solo l’imprinting del grado libertà diffusa dei Paesi che li ottengono; la seconda è quella per cui anche il peggior macellaio del mondo, quando un interesse preciso lo muove, è capace di fare la colomba della pace a cottimo. 

Ed Erdogan, nella sua instancabile opera di metter quiete fra Russia ed Ucraina, non cerca certo il Nobel per la Pace. No, lui vuole solo che Vladimir Putin gli subappalti ancora la logistica dei pezzi di Africa che rosicchia e che l’Occidente se lo tenga nel club ma con ampie deroghe alle regole della casa. 

Recep il pragmatico
Il presidente Recep Tayyp Erdogan (Foto OCHA / Berk Özkan)

Ecco perché il successo clamoroso che il presidente turco ha ottenuto con l’accordo sul grano è successo che pesa. Perché con una transazione indiretta (i due Paesi non hanno stipulato cose reciproche, ma si sono interfacciati ciascuno con Ankara) ha aperto il primo vero spiraglio di dialogo dal 24 febbraio. Erdogan ha poi verniciato di legittimità planetaria la sua opera chiamando a sedere al tavolo il segretario Onu Antonio Guterrez e si è assiso comodo al tavolo a contemplare il suo capolavoro sapendo che in quel momento il mondo contemplava lui. 

Il dato è che se oggi milioni di tonnellate di grano ucraino e russo stanno navigando in acque non battute dalle cannoniere alla volta dei Paesi che nel mondo hanno più fame il merito è di un “dittatore“: così lo chiamò Mario Draghi con piena e tonda ragione

Ma i dittatori hanno una caratteristica che i leader democratici non avranno mai: parlano la stessa lingua degli autocrati che devono ridurre a più miti consigli. E a volte con quella lingua fanno miracoli che la democrazia si sogna. 

Pane e mezzaluna. 

LE ISOLE FIJI 

Il Primo Ministro di Fiji Frank Bainimarama (Foto: Photo: UNIS Vienna)

Sono tornate al centro dell’attenzione come baluardo anti Cina ma questa loro skill geopolitica un po’ utilitaristica non toglie nulla al fatto che per le Isole Fiji potrebbe arrivare una nuova primavera economica. Recentemente gli Stati Uniti hanno svelato la volontà di dare una importante spinta propulsiva nella regione del Pacifico. 

Lo scopo è quello di sempre acuito dal gigantismo occulto di un Paese che si sta facendo schermo della crisi russo-ucraina per aumentare letteralmente di peso sul pianeta: contrastare la crescente influenza della Cina. Ecco perché la vicepresidente Kamala Harris ha annunciato un finanziamento di 600 milioni di dollari in un vertice regionale chiave. 

Lo ha fatto in un discorso video al Forum delle Isole del Pacifico (PIF), spiegando che gli Usa apriranno due nuove ambasciate a Tonga e Kiribati; che il programma Peace Corps sarà attivo sul quadrante entro il 2024. 

E ora anche un Diplomatico

Ma non è finita: Washington provvederà a nominare il primo rappresentante diplomatico di rango massimo ed ufficiale in assoluto nel Pacifico ed ha annunciato l’intenzione di riaprire anche la sua ambasciata nelle Isole Salomone. Poche ore fa Joe Biden ha riconosciuto che la regione potrebbe non aver ricevuto abbastanza attenzione in passato. “Cambieremo le cose, gli Stati Uniti vogliono approfondire in modo significativo la presenza nella regione del Pacifico“. 

E con quanto? Per ora con 60 milioni di dollari per infrastrutture ogni anno nell’arco di un decennio, una cifra monstre che rimetterà in sesto l’economia di un quadrante del mondo dove tutti credono che il way of life isolano con palme e collane di fiori sia garanzia di pace sociale e progresso. 

E siccome non è così oggi alle Fiji anche i soldi di zio Sam faranno comodo. Perché diventare una vedetta affacciata su Pechino deve avere un prezzo più alto di quello che si paga a diventarlo. Sennò non è un affare: è colonialismo 2.0. 

Pay per view. 

DOWN 

PETRONAS 

Uffici Petronas (Foto: Shunsuke Kobayashi)

La notizia è passata sotto il tappeto del mainstream economico mondiale ma è di quelle da annuario sul tema: due filiali lussemburghesi della compagnia petrolifera statale malese Petronas sono state sequestrate. Da chi? Lo ha spiegato un pool di avvocati di quelli che per parcellizzare usano i cataloghi della cantieristica di lusso: dai discendenti di un defunto sultano e per una controversia legale da 15 miliardi di dollari legata a un accordo firmato 144 anni fa. 

Ma come ha fatto roba vecchia quasi un secolo e mezzo a diventare vicenda giudiziaria monstre oggi? Semplice, se gli eredi dell’ultimo sultano musulmano di Sulu, impugnano un atto affermando di detenere terreni in quello che oggi è lo stato malese di Sabah, che trabocca petrolio. Ecco, gli eredi del sultano sostengono con orgoglio che gli ufficiali giudiziari in Lussemburgo hanno sequestrato le società holding per loro conto. 

Le filiali registrate in Lussemburgo, Petronas Azerbaijan (Shah Deniz) e Petronas South Caucasus, gestivano gli interessi del gas della compagnia energetica statale in Azerbaigian e potrebbero valere più di 2 miliardi di dollari.

L’affitto del 1878
Foto: Peter Castleton

Cronistoria breve ma intensa: nel 2017 gli eredi Sulu chiedono un super risarcimento per Sabah dato che a loro dire l’avo l’aveva aveva affittata a una società commerciale britannica nel 1878, prima della scoperta di vaste risorse naturali della zona. 

A marzo c’era stato un arbitrato in Francia che aveva stabilito come la Malesia , che ha ereditato gli obblighi del contratto di locazione dopo essersi assicurata l’indipendenza dalla Gran Bretagna, deve pagare ai discendenti 14,9 miliardi di dollari, soldoni mai pagati. E dato che il governo malese ha fatto orecchie da mercante i ricorrenti si sono rifatti “alla fonte”, cioè sulla compagnia petrolifera nazionale malese. 

Il caso che finora ha attirato poca attenzione al di fuori della Malesia, è stato descritto dagli esperti del Financial Times come “uno dei procedimenti arbitrali più insoliti della storia“. Ed uno dei più delicati, a contare che Petronas oggi viene inserita nel novero delle società a cui chiedere rubinetti più aperti per controbilanciare quelli chiusi da Vladimir Putin in faccia all’Occidente. 

Metti un Tigre nel motore. 

L’IRAN 

Il mausoleo di Ruhollah Komeini II a Teheran (Foto: Gilbert Sopakuwa)

Nell’età dell’oro della terribile polizia politica dello Scià, la Savak, in Iran scomparire all’improvviso e ricomparire in forma di epitaffio era la cosa più facile del mondo. Ed era una cosa talmente facile che anche l’Iran degli ayatollah e quello 2.0 non hanno resistito alla tentazione ed hanno applicato pressoché gli stessi metodi, cambiano solo le divise di chi incarcera, tortura ed uccide

In questi giorni ad esempio la condanna definitiva a sei anni inflitta al regista dissidente Jahar Panahi è diventata effettiva ed è passata in punto di notifica in mano alla polizia di Teheran, che ad ore andrà a prelevare il cineasta condannato nel 2011 ma con una pena mai eseguita. 

La destinazione sarebbe un altro carcere rispetto a quello indicato originariamente, il centro di detenzione di Evin, allo scopo di distogliere l’attenzione dal caso che aveva suscitato un certo scalpore già alcuni giorni fa. Lo hanno lasciato a cuocere nel suo brodo di paura per oltre 10 anni, Panhai, poi, in base a circostanze che stanno alla giurisprudenza come l’Iran sta allo stato laico, hanno riesumato lo spettro e gli hanno dato sostanza: il regista deve andare in carcere. 

Quelle informazioni da non chiedere

Ma perché? Perché nel 2010 il regista già vincitore dell’Orso d’oro a Berlino con Taxi e del Leone d’oro a Venezia per Il Cerchio si era recato alla procura di Teheran per avere aggiornamenti sul caso di un altro regista arrestato. Ed era finito indagato e processato anche lui. 

Il portavoce della magistratura Massoud Setayeshi l’aveva messa giù facile, qualche giorno fa. Spiegando che i giudici iraniani non avevano mai eseguito la condanna ed omettendo di spiegare perché abbiano deciso di eseguirla oggi e soprattutto perché condannare un uomo che ha chiesto informazioni su un altro dovrebbe essere un atto giuridicamente congruo

Ma in Iran certe cose non cambiano e certe zone d’ombra non schiariscono: che si sia la polizia segreta di un tiranno filo occidentale o i pretoriani fanatici di una teocrazia annacquata da quelle parti c’è sempre la porta di un carcere aperta e quella di un regime sbattuta in faccia all’arte ed alla libertà. 

Medio Evo inossidabile. 

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