Internazionale, i protagonisti della XXXV settimana MMXXII

I protagonisti della XXXV settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo.

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della XXXV settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo.

UP

LIZ TRUSS

Liz Truss con Boris Johnson (Foto: Simon Dawson © No 10 Downing Street)

Di Liz Truss ne avevamo già parlato a maggio e in tempi non sospetti, sottolineando che era un falco (ci perdonino i pignoli gender ma “la falca” non esiste) che si era messo in scia con l’atlantismo più marcato e con l’appoggio all’Ucraina in modalità “Russia e Cina provateci e vi sdrumiano”.

Tuttavia il dato è un altro: la neo premier del Regno Unito ha caratteristiche su cui specie noi italiani dovremmo riflettere senza cadere nella mistica dell’elefante bianco. Ed avendo sempre come bussola la libertà di scelta. Innanzitutto è donna ed è Tory. Cioè è la prova vivente che un conservatore del gentil sesso può e deve aspirare a guidare uno Stato che voglia ritenersi democratico e civile. Senza che nessuno le rinfacci la trucidità della schiatta di origine.

La 47enne nuova inquilina del 10 di Downing Street è una mastina che prosegue una tradizione di premier donne. Una tradizione che prese abbrivio con una certa “Maggie” Tatcher e che trovò sostanza con Theresa May. Non esattamente due raccoglitrici di camomilla. Eppure gli inglesi, che sono disposti a barattare il loro atavico sciovinismo di gente che fino ad un secolo fa fumava sigari e sorseggiava brandy solo fra maschietti con il valore delle opportunità geopolitiche, hanno deciso che lei dovrà comandare.

Più intrasingente di Boris
Liz Truss (Foto: Ben Stevens CCHQ © Parsons Media)

Che significa? Che l’80% degli iscritti al Partito Conservatore ed oltre il 50% dei parlamentati Tory accreditati hanno deciso che era meglio puntare su una che facesse apparire la politica estera di Boris Johnson come uno stage in una comune hippie, da quanto è intransigente.

La Truss infatti è proprio la titolare uscente del Foreign Office. Lì si è fatta le ossa promettendo macelli contro la Russia di Putin. Noi le donne le releghiamo ai piani alti ma non altissimi per far vedere che le consideriamo. Oppure le bolliamo come impresentabili per retaggi che fanno la polvere nei libri di storia. In un Paese che ha la corona le donne le mettono a comandare, a decidere, a governare.

Anche se poi lo fanno con le zanne fuori dalla bocca, perché la democrazia non nega opportunità a nessuno. Neanche a chi guarda a Mosca come ad un nido di vespe ed in mano tiene l’insetticida.

Brava, pericolosa, scelta.

TREVOR TIMM

Trevor Timm (Foto Marla Aufmuth © TED)

L’avvocato Trevor Timm è un giovane e battagliero legale che non è mai stato immune dalle lusinghe del “beau geste” sintattico. Perciò oltre che corteggiare la Legge lui fa il filo alla scrittura creativa ed a tante altre cose. Cose come i diritti umani per esempio. Cose che lo hanno portato ad essere l’uomo dietro la strategia di Julian Assange per non andare a languire definitivamente in un carcere Usa.

Timm è il direttore esecutivo del gruppo Freedom of Press. Dopo la sentenza con cui un tribunale inglese aveva di fatto “consegnato” il fondatore di WikiLeaks alla Giustizia di Washington si era messo al lavoro per trovare una via di uscita. Quale? Quella di un appello di Assange che non fosse un pannicello caldo procedurale vanificabile in pochi minuti di Camera di Consiglio.

Il parere di Timm è chiaro: “Assange potrebbe avere almeno un’altra via per fare appello, quindi forse è ancora presto per considerarlo già su un volo per gli Stati Uniti”. Poi aveva puntato il dito contro una Giustizia britannica a suo dire troppo in endorsement con le esigenze dei potenti cugini Usa. Dicendo: “Questo è un ulteriore sviluppo preoccupante in un caso che potrebbe mettere a repentaglio i diritti dei giornalisti nel ventunesimo secolo“.

Giustizia a comando
Julian Assange (Foto: David G Silvers)

Perché per Timm nei confronti di Assange la giustizia ha funzionato “a comando”? Perché la sentenza di inizio estate è arrivata dopo una decisione del dicembre 2021. Che stabiliva una cosa molto semplice: che Assange non poteva essere estradato perché l’incarcerazione negli Stati Uniti avrebbe potuto aumentare il rischio di suicidio. Poi era arrivato un giudice inglese che aveva “accettato le assicurazioni degli Stati Uniti secondo cui Assange non sarà sottoposto a isolamento e avrà accesso a cure psicologiche”.

Insomma, contro una sentenza che fonda non sul diritto ma “sulla fiducia” serve una nuova strategia. E la strategia suggerita da Timm potrebbe essere quella della Corte dei Diritti dell’Uomo che ha un suo peso su Londra. Perché? Perché “per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il Governo del Paese ha mosso accuse penali contro un editore per la pubblicazione di informazioni veritiere. Questa è una straordinaria escalation degli attacchi dell’amministrazione Trump al giornalismo e un attacco diretto al primo emendamento“.

Insomma, il nodo è chiaro: se Trump viene messo alla berlina a Washington per i fatti di Capitoll Hill e Washington vuole Assange perché il suo arresto è il frutto di una diretta condotta politica di Trump, non è il caso di riconsiderare le azioni di Trump come ammantate dal vizio liberticida in cui anche Assange è incappato con le nuove accuse contro di lui?

Il ragazzo è sveglio.

LA CECENIA

Ramzan Kadirof (Foto © Kremlin Press Office)

Ci sono popoli e bandiere destinati alla polvere e popoli e bandiere destinati alla gloria, a prescindere. Prescindere da cosa? Da quanto quei popoli e quelle bandiere entrano nel mainstream. E da che angolatura. La Cecenia ad esempio per noi occidentali di questo scampolo finale del primo ventennio del terzo millennio è due o tre cose poco carine: Razman Kadyrov,Putin ti amo” e barbe lunghe macchiate di sangue innocente.

Barbe lunghe come quella che porta orgogliosamente Makhno, che loda il suo Profeta anche nei dettagli estetici. Il Washington Post lo ha seguito per qualche giorno. Makhno, lo ha fatto per sfatare un luogo comune di questa guerra pazza in cui tutti cercano il bianco e nero e nessuno vuole grigi. Perché sono tendenzialmente più scomodi e complessi e noi siamo ormai specie binaria che non ama più le sfumature.

A Makhno qualche giorno fa gli hanno apparecchiato un gustoso pranzetto di bentornato, era stato fuori per un po’, in cerca di torrette di blindati distrutti da cui sfilare le canne delle bocche da fuoco. Gli hanno fatto trovare una torta ricoperta di glassa di cioccolato e decorata con le immagini di due bandiere: una della Repubblica cecena di Ichkeria, la “casa in cui lui e i suoi compagni sperano di tornare un giorno”. E una per l’Ucraina, il Paese per cui sta combattendo.

Già, perché lui, Makhno, è un comandante di battaglione di quei 30mila ceceni che non credono affatto che Putin sia il meglio che potesse capitare alla Cecenia. E che l’Ucraina sia un serpaio neonazista da estirpare. Ragioniamoci ché il passaggio è importante. Noi occidentali in purezza abbiamo questa pessima abitudine di attribuire ai popoli “minori” le stesse prerogative di cecità e incapacità di visione etica ampia delle nazioni giganti e troglodite che seguono.

Commettemmo lo stesso errore con i Curdi
Vladimir Putin e Ramzan Kadirof (Foto © Kremlin Press Office)

E’ un errore che all’inizio commettemmo anche con i curdi. Che oggi lodiamo e consideriamo eroi perché hanno sderenato l’Isis e di cui deprechiamo le sorti. Che sono appese alla volontà di un matto come Erdogan. Però ad inizio anni ‘90, quando Saddam li gasava in scioltezza, non smuovemmo un dito perché dovunque noi si veda un turbante, una barba e un pugnale noi cadiamo nella mistica cretina. Quella del “tanto sono tutti uguali e se si ammazzano fra di loro ne verrà solo bene”.

Con la Cecenia è andata un po’ così: amica di Putin una volta amica di Putin per sempre. Abbiamo visto solo il 141mo battaglione Kadyrovita schierarsi orco con Mosca e ci è bastato. Ecco perché Makhno è importante. Non tanto perché è ceceno e con migliaia di altri ceceni combatte con Kiev,. Ma perché ci ha ricordato che nella storia non esistono narrazioni uniche e che forse, tutti, dovremmo ricominciare a pensare invece di incasellare.

E a vedere il mondo per quello che è: un posto dove i colori vanno a mescola, non a strisce.

Nuovo traguardo: capire.

DOWN

RYAN McCARTHY

Ryan McCarthy (Foto: Darrell Hudson)

Il sito di inchiesta American Oversight lo accusa di non aver mobilitato la Guardia Nazionale in occasione dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Attenzione, c’è un distinguo da fare: la sola unità della Guardia Nazionale che negli Usa dipenda solo e soltanto dal Presidente è l’unità di stanza a Washington.
E lui, l’ex Segretario dell’Eercito Ryan McCarthy, non l’avrebbe mobilitata per fronteggiare quelli che in buona sostanza erano i “sodali” dell’allora capo della Casa Bianca uscente Donald Trump.

Perché in occasione di quell’Epifania di sangue e democrazia violata non venne mobilitata la Guardia Nazionale? Eppure lui, McCarthy, in occasione delle sommosse dopo l’omicidio di George Floyd si era dimostrato tanto ligio al suo dovere di attivazione che aveva fatto alzare perfino gli elicotteri.

Elicotteri a volo radente contro civili americani in protesta è una cosa che non si era vista. Neanche durante le marce anti Vietnam del 1971. E McCarthy era finito sotto inchiesta. Il sunto è questo: come Segretario dell’Esercito ed assieme al Segretario della Difesa l’ex ranger passato alla politica avrebbe potuto invocare il fatto che la GN a Washington accende i motori solo su diretto ordine del Presidente, che quell’ordine non lo diede.

In pericolo? Lui era la vittima
Donald Trump

Tuttavia la legge è chiara. Se il capo della Casa Bianca è in pericolo come istituzione le due figure hanno l’obbligo di chiamare la Cavalleria. E il punto è questo: a McCarthy si contesta il fatto di non aver considerato l’assalto al Capidoglio come situazione di pericolo per il Presidente. Che della democrazia è totem massimo. Non la considersà un rischio perché a suo avviso le proteste non creavano pericolo, ma ne stavano contrastando uno: quello di una democrazia violata da un voto imbroglione che aveva spedito Joe Biden alla Casa Bianca.

E dove sarebbero conservate le prove di questa “indolenza voluta” da parte dell’ex Segretario dell’Esercito? Nella messaggistica dei cellulari in uso alle alte cariche e consegnati ad interim dal Pentagono. E qui scatta il colpo di scena svelato dal Washington Post e da American Oversight: il Pentagono ha “cancellato un potenziale tesoro di materiale relativo all’attacco del 6 gennaio 2021 al Campidoglio dai telefoni di alti funzionari della difesa dell’amministrazione Trump”.

Non c’è più nulla che possa aiutare la Commissione numero 6 che sta portando Trump alla sbarra sui fatti di Capitol Hill. McCarthy non fece nulla ma non vi è nulla se non il dato fattuale che dimostri come la sua fu una scelta strategica di solidarietà al Capo che lo scelse nel 2019 e la violazione del suo mandato. Apparentemente la cancellazione è stata eseguita in linea con la politica del Dipartimento della Difesa e dell’esercito per i dipendenti in cessazione di incarico, ma oggi un backup dei dati sensibili lo fanno anche in Burkina Faso. E nell’America che Trump si voleva tenere in barba ad un voto democratico non è successo, e come sempre a pagare saranno eventualmente i ciambellani servizievoli, ma non il visir che diede loro gli ordini.

Segretario e basta.

VLADIMIR PUTIN

Vladimir Putin (Foto Kremlin P.O.)

Di Vladimir Putin tutto si può dire meno che non sia un nostalgico: il leader del Cremlino è uno che ama rifarsi alle epoche in cui i “capi” comandavano e i “popoli” ubbidivano osannanti. Salvo poi essere blanditi se l’ubbidienza era cieca o fucilati se la fede negli “Immancabili destini” vacillava. Perché “immancabili destini”?

Non solo perché Putin alla Grande Russia ci crede quasi quanto ci credono i russi stessi, del cui sentimento collettivo lui è più interprete che bovaro. Ma anche perché il nuovo titolo istituito da lui ha tutti i toni e le liturgie fecondeggianti del Ventennio che noi italiani patimmo a suo tempo.

Quale titolo? Quello di “Madre Eroina” che non è una istigazione a drogarsi ma la benemerenza che da qualche giorno la Russia accorda per volere dello “zar” con tanto di decreto legge. A chi verrà concessa? Alle madri di dieci o più bambini ed è un titolo non solo onorifico, visto che come informano le agenzie in queste ore dà loro diritto “a un pagamento forfettario di un milione di rubli, circa 16 mila euro”.

Quattro spicci per dieci figli
(Image Courtesy: Republic of Korea )

Insomma, Putin vuole davvero pagare (quattro spicci, a contare le skill del rublo attuale) le donne che figliano 10 volte e passa e lo vuole fare puntando sulla natalità del suo Paese. Riecheggiando le misure del nostro Ventennio. Spicca nel legiferato la la volontà del presidente russo che creare una solidarietà “patria” e di premiare chi la incrementi, anche a contare che la Russia ha territori sconfinati in cui “accasare” i suoi nuovi cittadini.

Ma sul serio in Russia c’è chi farebbe il decimo figlio per avere 16mila euro? Il problema non è la misura in sé o la veste anacronistica della stessa, il problema è che per darsi una patente maggiorata di Padre della Patria Vladimir sta chiedendo gli straordinari ai padri “nella” patria, a quelli ed alle madri che, forse Putin lo ha dimenticato, sono occidentalizzate da tempo. E magari di mettere in tavola dieci scodelle non ci pensano più da tempo.

Padre anacronistico.

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