Internazionale, i protagonisti della settimana XLV

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

UP

IL CIO

Dopo il Giappone con quelle “maggiori” toccherà alla Cina con quelle invernali. Toccherà cosa? Fare i conti con Olimpiadi, pericoli del covid, cautele che essi innescano e con il Comitato Olimpico Internazionale, Cio per gli amici spicci che amano gli acronimi. 

E malgrado il covid sia sempre nemico fiero ma nemico di certo più “sderenato” di quando la fiaccola olimpica brillò a Tokio, il Cio ha detto no agli spettatori stranieri per quando quella fiaccola brillerà a Pechino, il prossimo 4 febbraio 2022. 

Ecco le regole, stringate, essenziali e ferree per i cinesi e gli atleti che invece ai Giochi potranno e dovranno esserci: biglietti riservati e prenotati in anticipo, vaccinazione obbligatoria, quarantena fino a 21 giorni dall’arrivo per chi non fosse vaccinato ed esibizione di “esenzione medica giustificata” per la mancata vaccinazione. Mancano solo i tamponi presi al volo durante le gare di bob e il quadro è completo.

Ed è quadro responsabile. Dal Cio fanno sapere, con piglio inflessibile di chi ha imparato la lezione, fatto pratica a Tokio e vuole lo stato dell’arte a Pechino, che “le restrizioni per gli spettatori al di fuori della Cina continentale dovranno essere messe in atto per garantire lo svolgimento sicuro dei Giochi questo inverno, senza innescare nuovi pericoli mondiali“. 

 Non è mancata la lisciatina di un comitato che a non prendere cappellate ci tiene; lisciatina al governo cinese che in quanto cinese in tema di virus ha il marchio della recidività: “Contiamo sulla proverbiale capacità organizzativa del Paese ospite“. Paese che non ha tardato a ribadirla pavone con un piano monstre per evitare eventuali contagi. Come? Tutti i partecipanti completamente vaccinati, dal momento in cui appoggeranno le suole su suolo mandarino, entreranno in quello che viene definito un “sistema di gestione a circuito chiuso“. 

Sistema blindato con l’utilizzo di oltre 40mila addetti fra civili e militari che resterà in vigore per quasi due mesi fino alla chiusura dei Giochi il 13 marzo. E se lo dicono i cinesi che quel sistema sarà chiuso c’è da credergli.

Giochi ma senza giocare.

EVA JEWELL

Eva Jewell

Ad un mese circa dalla Giornata della Verità, la sua tigna ha già prodotto più di 50 istanze di risarcimento che vanno a fare somma e massa critica con le altre 94 già rubricate.

E non è difficile capire la portata etica di un loro accoglimento stragiudiziale da parte di un governo che volesse davvero mandare un segnale forte di comprensione e riconciliazione.

Quale governo? Quello canadese che ha in Eva Jewell il pungolo perfetto a ché prenda atto nel concreto degli orrori perpetrati nelle “Scuole Residenziali“.

Cosa sono? Cominciamo col dire che per fortuna la domanda giusta dovrebbe essere “cosa erano?” e spieghiamo. Le Scuole Residenziali erano scuole cattoliche in cui fra il 1890 ed il 1950 i governi canadesi spedirono forzosamente oltre 150mila bambini delle Prime Nazioni. Cioè bambini nativi, per lo più Inuit, Iroquoise e Metis. Pargoli che in quei lager con la lavagna vennero picchiati, seviziati, violentati in sgabuzzino e deprivati culturalmente di ogni appiglio con la loro identità di popolo. E uccisi, uccisi a mazzi, uccisi con tanta di quella meticolosità che le famiglie a cui erano stati sottratti con la forza dalla polizia non seppero più nulla di loro. O lo seppero decenni dopo per mezzo dei loro discendenti che trovarono le ossa dei loro nonni a calcinare sotto gli altari.

Come quando a maggio scorso vennero scoperti i resti di oltre 200 bambini sepolti nel terreno di una ex scuola in Columbia Britannica. Eva Jewell è la direttrice della ricerca dello Yellowhead Institute, un think tank delle Prime Nazioni che sta investigando su ogni singolo caso per accogliere istanze di risarcimento e ripristino della verità storica. Il tutto dopo che nel 2015 una commissione di inchiesta promossa dal governo aveva certificato che si era trattato di un “genocidio culturale“. 

Ma Eva non ci sta e vuole che sia riconosciuto il genocidio etnico cosciente e non vuole che il paese della foglia d’acero in vessillo usi quella foglia come quella di fico. Perché? Perché le Scuole Residenziali Cattoliche erano finanziate da Ottawa: in pratica e a farla burbera mentre le truppe canadesi combattevano contro Hitler in Europa, in patria molti preti e chiericicanadesi ne seguivano il modello.

E in questi giorni, di fronte alle nuove istanze arrivate sul suo tavolo Eva, che è una fiera Chippewa dell’Ontario, ha detto ad Al Jazeera; “È tempo di onorare i bambini e lo spirito implacabile di questi antenati che li hanno accolti e li vedono soffrire perché privi di verità. Un mese fa abbiamo suonato il tamburello per chiamare a raccolta i loro spiriti, oggi suoniamo la tromba per chiamare a giudizio i loro carnefici“.

Sciamana di libertà.

DOWN

ZANG GAOLI

Di lui non ci è piaciuto il merito di quel che gli si contesta che pure sarebbe deprecabile ma ha l’ammanco fondamentale della prova d’aula. No, quello che non ci è piaciuto dell’ex vicepremier cinese Zang Gaoli è stato come ha reagito alle accuse che gli muovono.

Quali accuse? Quelle per cui avrebbe violentato la star del tennis mondiale Peng Shuai, di cui tra l’altro pare si siano perse le tracce dal 2 novembre (avremmo voluto dire che è un giallo ma la mannaia del body shaming razziale ci ha potato la creatività).

Spieghiamola ché dopo i casi nostrani e quelli di alcune starlettes non proprio attendibilissime parlare di #MeToo è cosa etica e santa ma ricca di spigoli. La Peng ha deposto la racchetta ma è come se l’avesse usata lo stesso, ed ha servito un ace terrificante dritto sulle nespole di Gaoli, accusandolo di averla violentata approfittando della sua posizione di forza di altissimo papavero del partito comunista cinese.

Quando? In un vortice di trama voyeuristica la tennista ha spiegato che sarebbe accaduto quando il politico l’aveva invitata ad una partita di tennis… con sua moglie. Insomma, robe morbosucce a parte, la Shuai si è attaccata al social mandarino Weibo ed ha spiattellato ai quattro venti che la relazione extraconiugale e consenziente che lei aveva con Gaoli aveva avuto momenti in cui lei il consenso proprio non l’ha dato.

Inutile dire che se metti in punta di forcone uno che dal 2013 al 2018 è stato vicepremier della Cina e membro del Partito che vede in vertice un certo Xi Jinping la reazione arriva, e qui veniamo alla polpa.

In un altro qualsiasi Paese del mondo, gli Usa di Andrew Cuomo sgamato a pomiciarsi le segretarie ad esempio, il diretto interessato smentisce e la palla passa ad altri.
A chi? Ai giudici in punto di diritto e all’opinione pubblica in punto di cazzeggio, per essere precisi. In Cina invece si sono limitati a bannare la parola “tennis” dai motori di ricerca ed a mettere la più bieca sordina alla faccenda cancellando il post d’ufficio e d’imperio. Gaoli ha taciuto, la Cina ha sepolto e le accuse resteranno tali perché in Cina un vicepremier lo processi solo se si è messo in testa di fare il premier senza informare il premier.

Banna la colpa.

EVAN NEUMANN

Presente l’assalto degli sciroccati sovranisti Usa al Campidoglio del 6 gennaio di quest’anno? Bene, uno di loro è scappato dalle attenzioni della giustizia a stelle e strisce e dopo un peregrinare sornione per mezza Europa, Italia inclusa, ha chiesto asilo politico all’unico Paese al mondo dove se assalti il Capidoglio ti vedono come una specie di Pietro Micca: la Bielorussia. 

Esatto, e non è popper scaduto, è cronaca: il 48enne Evan Neumann, californiano, produttore di borse e affiliato ai tamarri che avevano nello Sciamano Angeli il loro testimonial, se l’è data. E lo ha fatto a casa di uno a paragone del quale Donald Trump pare uno dei Teletubbies: Alexandr Lukashenko

Neumann era prossimo al processo, e che Zio Sam gli alitasse sul collo ariano lo aveva intuito già a marzo. Perciò con la scusa di un viaggio di affari era uscito dal suo Paese. E in quale paese era sbarcato per primo? Esatto, da noi in Italia. Poi aveva attraversato il confine con la Svizzera, era scivolato in Germania, transumato in Polonia e da lì si era accucciato silente per qualche mese in Ucraina. 

A luglio aveva provato ad attraversare il confine con la Bielorussia come un messicano qualsiasi nei “suoi” machissimi Usa e datemi un amen al contrappasso del Tizio col Serto di cui ricorrono sette secoli dalla dipartita. In quel soave frangente il nostro eroe si era preso una cofana di botte dalla polizia spetsnatz di Lukashenko, gente che potrebbe pettinare un gorilla a rutti e che lo aveva sbattuto in una cella misurabile col righello delle medie.

Ma Lukashenko è un despota infido e l’occasione gli era sembrata troppo bella per non approfittarne. Hai a casa tua un sovranista Usa doc e che fai, non lo usi? Troppo perfino per un bonzo, figuriamoci per uno che fa il “Presidobermann” dal 1994. Perciò in questi giorni Neumann è stato intervistato dalla Tv di stato bielorussa in pompa magna. E ha detto: “Ho subito una terribile persecuzione politica“. 

Ecco, il fragore della risata che questa affermazione fatta da un suprematista Usa intervistato da un reporter bileorusso all’indirizzo di uno stato occidentale libero l’ha registrato Perseverance su Marte in Hd, tanto era nitido. 

Perché che si voglia sfuggire alla giustizia al limite è comprensibile anche se non legittimo, che non si sia d’accordo con una certa politica è perfino bello, ma che per scappare da un vampiro tu vada a cercare rifugio in Transilvania significa una cosa sola: che il più scemo fra quegli scemi là non era Angeli lo Sciamano.

Spiegategli quella cosa della padella e della brace.