Internazionale: protagonisti della settimana XXXVIII nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

UP

ABDI YUSUF

Il cinema di Mogadiscio (Foto: The National Theatre)

Dirige il teatro nazionale di Mogadiscio che non è Broadway o una cavea di Trinacria, non lo è perché in realtà è di più. La parola “teatro” ha un etimo nobile, viene dal greco e significa “guardare“.

E a ché gli uomini guardino il frutto del loro talento c’è bisogno che i frutti della loro bestialità vadano in marcio. Frutti come la guerra e il terrorismo che al teatro di Mogadiscio fecero sfregio con le bombe della Somalia che fu e con gli attentati di Al Shaabab della Somalia che ancora è.

Pochi giorni fa il teatro ha riaperto con la proiezione di due corti che parlano della Somalia che cerca la vita malgrado la Somalia affezionata alla morte. E quella proiezione ha fatto molto più del suo pignolo dovere filmografico: ha acceso una luce appena è scattato il buio in sala, la luce dell’uomo che si riprende lo spazio per creare e che lo fa sulle macerie di un Paese che il rating mondiale sulla sicurezza mette in basso come nessun’altro.

Dopo 60 anni da che il compiacente brutalismo cinese di Mao eresse quel luogo e dopo 30 che l’anima macellaia del tribalismo lo rese inutile, per la prima volta nel teatro di Mogadiscio si è sentito un applauso. E le mani che battevano assieme a quelle del direttore Yusuf erano ali, ali di colomba.

Ilaria e Miran se la ridono.

NADIMA

[Photo courtesy of Nadima]

Volevamo raccontare una storia sull’Afghanistan ma abbiamo trovato chi ce l’ha raccontata e sa raccontarla meglio di noi. Abbiamo trovato Nadima, che cura le piante di chi ha strappato le sue radici ed è corso via preferendo l’esilio alla morte, preferendo morire dentro invece che fuori.

Nadima si prende cura delle piante dei suoi vicini e ha cento rossetti per abbellirsi le labbra, uno per ogni amica che, fuggendo da Kabul un mese e mezzo fa, glie lo ha lasciato in dono: farselo trovare al check di Abbey Bridge dai talebani sarebbe stata una condanna o la fine della fuga prima che la fuga cominciasse.

Nadima lo ha detto chiaro e stringato, lo ha detto ad Al Jazeera in modo che tutti sapessero come la pensa, pure i talebani: “Non sto andando da nessuna parte. Non ho intenzione di andarmene in nessun caso. Sono nata qui, sarò sepolta qui”. Nadima, nota ai suoi follower come Patinggala Kakai, è una influencer di etnia Pashtun, è figlia di un popolo che ha costruito la mistica dell’Afghanistan “Tomba degli Imperi”, da quanto è bellicosa e coriacea.

Rimarrò qui e aspetterò il mio tempo per parlare di ciò che deve essere fatto in questo Paese. Non mi sento bene a lasciarlo per la sicurezza del Canada, che è stata la mia casa per 20 anni fino a quando non sono tornata in Afghanistan nel dicembre 2019”.
Poi Nadima ha detto quella cosa che ci aspetteremmo dicessero almeno una volta nella vita gli influencer occidentali comodi nelle loro esistenze caramellate: “Non voglio limitarmi ad avere solo una presenza online ed a fare vita sui social, magari da migliaia di chilometri di distanza, la vita è dove si vive, non dove si guarda vivere”.

E ancora: “I miei genitori hanno lasciato l’Afghanistan nel 1984 quando avevo un anno. Scapparono via nel dolore. Mia madre mi ha raccontato storie di come ha attraversato le montagne, correndo in Pakistan, con i cani che le rincorrevano e lei che aveva le vesciche ai piedi. Non mangiavano da giorni. Avevano paura, sono stati anche derubati. All’epoca ero una bambina, piangevo per essere allattata e mia madre non sapeva cosa fare per consolarmi”.

Quindi Nadima resta: “Sì, molte mie amiche mi hanno chiesto di prendermi cura delle loro piantine di sesamo e melograno. Alcune delle donne che ho conosciuto mi hanno regalato i loro prodotti di bellezza e cura della pelle che devono aver acquistato all’estero, e io li conservo tutti, li conservo ed annaffio le loro piante”.

E fin quando a Kabul ci sarà qualcuno che dà l’acqua alle piante di chi ha dovuto strappare le sua radici da quella terra, qualcuno come Nadima, in quel Paese reso arido dall’odio la pianta più bella non morirà mai. Perché a pensarci bene la libertà non è un’orchidea vanitosa, la libertà è un’edera testarda.

Pollice in alto, pollice verde.

NICOLAS KAZADI

Il ministro Nicolas Kazadi (Foto: Mwanacongo)

Giocare al rialzo e tenere la mano vincente: questo sta facendo la Repubblica (molto poco) Democratica del Congo grazie alla verve impunita del suo ministro delle Finanze Nicolas Kazadi.

Inutile girarci intorno, la questione afghana non ha solo innescato un domino geopolitico clamoroso che tiene in scacco l’Occidente, ma ha anche e soprattutto rimesso a maquillage le aspirazioni di quei Paesi che erano in procinto di concludere affari con il vero “contractor” dell’affaire afghano: Pechino.

Perché? Per motivi semplici quanto sottotraccia: la Cina sta colonizzando il pianeta intero con interventi massivi e mirati di sfruttamento economico. È un colonialismo in punta di danè che mette in prima fila Paesi con precise caratteristiche: indebitati, traboccanti di materie prime e con situazioni politiche febbrili ma non comatose. L’Afghanistan trabocca di giacimenti di ogni bene e la Cina sta aspettando che si schiudano quelle valli in quota e i loro sottosuoli per piazzare infrastrutture e creare debito, cioè controllo.

Il Congo, o quanto meno la parte di Congo che decide, questa faccenda l’ha capita bene. L’ha annusata primo perché anche il Congo è ricco di roba, secondo perché il Congo ha intuito che oggi le mire cinesi su un Paese quasi confinante (li separa solo li smilzo Tagichistan) rischiano di “distogliere” l’attenzione da Paesi più lontani. E’ un po’ come quando un capo gang prende la fissa di un nuovo scagnozzo: quello preferito fino a quel momento vede rosso e per andargli a comprare le sigarette all’improvviso vuole la benzina per lo scooter.

Ecco perché il governo della Repubblica Democratica del Congo sta rivedendo al rialzo il suo accordo da 6 miliardi di dollari di “infrastrutture per i minerali” con gli investitori cinesi. Il ministro Kazadi lo ha definito con Reuters “parte di un più ampio esame dei contratti minerari”. Che significa? Innanzitutto che il presidente Felix Tshisekedi è in mood con quello che aveva già ipotizzato ad inizio estate, poi che la metà dell’estate con l’accelerazione della storia a Kabul avevano fatto di quell’ipotesi una necessità. Quei contratti, ha detto il ministro, “non avvantaggiano sufficientemente il Congo”.

Congo che, solo per amor di nozione blanda, è il più grande produttore mondiale di cobalto e il principale produttore di rame in Africa, rame che è una delle perle della corona mandarina e neo coloniale afghana. Perciò è stata formata una commissione per rivalutare le riserve e le risorse dell’enorme miniera di rame e cobalto di China Molybdenum Tenke Fungurume. Lo scopo è “rivendicare equamente i (suoi) diritti“.

Kazadi ha messo il carico, affermando che “anche l’accordo del 2007 concordato con le società statali cinesi Sinohydro Corp e China Railway Group Limited è stato rivisto, questo per garantire che sia equo ed efficace”.

Lo scopo è ottenere davvero dei benefit giganti? Assolutamente no, il codice diplomatico danereccio africano ha altri linguaggi: lo scopo è “solo” far capire alla Cina che deve scollarsi per un attimo dal sogno afghano e chiudere le sue pratiche congolesi, magari con qualche piccolo incremento di capitale che non guasta.

Gira la testa Dragò

DOWN

PUTIN-TRUDEAU

I presidenti Putin e Trudeau (Foto: Kremlin.ru)

Tutti e due restano in sella ma cambiano cavallo, e passano da un ronzino bolso da tenere a governo con un colpetto di redini ad un nevrile stallone da tenere buono con il pungolo. Vladimir Putin e Justin Trudeau non sono omologhi praticamente in nulla, ma sono accomunati da un destino d’urna dolce-amaro che le cronache di questi giorni ci consegnano.

Partiamo dal primo ché il tipo è notoriamente incazzoso. Vladimiro Putin da Madre Russia scopre di avere una madre matrigna, vince le elezioni legislative ma perde pezzi di consenso per strada. E son pezzi grossi: primo perché vanno al Partito post comunista, secondo perché quei voti sono figli di due binari comportamentali. Sono i voti che rimettono al centro i nostalgici della Russia che fu e sono soprattutto i voti di opinione con cui il dissidente avvelenato ed incarcerato Navalny aveva voluto “contarsi”.

Come? Indicando nel voto ai nipotini del Pcus una specie di “cartina tornasole”. Un indicatore tuttavia non tanto del dissenso generico verso il presidente, quanto di quello mirato per ciò che il presidente avrebbe fatto a lui, a partire da una ciucciata di caffè al polonio 210. Il risultato? Una mezza carambola: Russia Unita di Putin prende poco meno del 50% e cala come le braghe di un incontinente rispetto al glorioso 54% del 2016; i comunisti fanno il botto e passano dal 13 al 25% e la Duma non è più casa, anzi dacia sua.

Che significa? Che Putin non ha più i voti per modificare la costituzione a suo piacimento, specie per rimanere in arcione alla Russia fino alla conquista di Marte.

Veniamo al canadese Trudeau: belloccio, figo e pop. Attenzione, di quel pop che piace tanto alle minoranze etniche che del ricchissimo Canada sono spina dorsale, ma non più tanto de tenere i suoi liberali al comando senza lo spauracchio di un governo di coalizione.
Il suo terzo mandato a soli 49 anni è storia, ma lui, Trudeau, la storia sperava di farla togliendosi la cambiale di assemblare cocci dopo aver stappato la sciampagna: gli è andata male perché dovrà continuare a blandire Partitini prog affidabili come Michele Misseri mentre i conservatori fanno massa critica per dargli la spallata.

Mazzieri senza briscole.

L’OMS-I PAESI RICCHI

Cruda e numerica, la faccenda sta messa più o meno così: su 1,3 miliardi di popolazione totale dell’Africa meno del 2% della stessa è stata vaccinata contro il Covid.

La fine di settembre porta l’inevitabile fanfara gongolante dei Paesi occidentali, in particolare europei, che hanno quasi raggiunto l’immunità di gregge e che la vorrebbero consolidare con una terza dose ai loro cittadini, partendo magari dai più deboli. E a proposito di debolezze e tornando ai numeri crudi, l’Africa viaggia su una media di 250mila casi a settimana, con almeno 28 Paesi “sotto botta” dell’impennata di contagi a trazione variante Delta.

Ora diamo qualche voce singola: “Non abbiamo ancora coperto nemmeno il 5% della popolazione con le vaccinazioni iniziali necessarie per rallentare la diffusione del virus e, soprattutto, fermare quella che pensiamo possa essere una quarta ondata in arrivo“. Chi lo dice? Matshidiso Moeti, direttore per l’Africa dell’OMS, riferendosi alla cintura dei Paesi dell’Africa equatoriale, quella che per storia, geografia e rating economico sta messa peggio.

E quando Reuters gli fa notare che l’Occidente danareccio sta già pensando alla terza dose Moeti ride amaro e cita il kenyota James Nderitu, un manager 58 enne di Nairobi, che ha fatto la sua prima dose di AstraZeneca il primo settembre e che presumibilmente riceverà la seconda entro metà ottobre. Aveva detto Nderitu ai media locali, scatenando un putiferio con le rappresentanze occidentali: “Vorrei sollecitare i Paesi europei che hanno il vaccino ad aiutarci. Invece di vaccinare i bambini, dovrebbero smettere di essere egoisti e aiutare i Paesi africani in modo che possiamo vaccinarci”.

Insomma, non va bene affatto, anche perché se parliamo di una pandemia e della casella scientifica per cui dove ci sono scarse immunizzazioni si cono ampie corsie di mutazione del virus sarà facile intuire che il problema è tecnico prima ancora che etico, e di problema planetario si tratta. Non ha stupito più di tanto perciò quando un eminente patologo keniota, Ahmed Kalebi, consulente patologo indipendente e fondatore di Lancet Kenya, ha coniato una formula bruta: “apartheid vaccinale“.

Ha detto al Times Africa, spiegando che le colpe sono anche indigene: “Sono solo due i paesi in tutta l’Africa ad avere la capacità di produrre vaccini: Sudafrica e Senegal. Poi ci sono paesi come il Kenya e l’Egitto che avrebbero la capacità tecnica ma non ci hanno mai veramente investito”. E L’Oms? Per bocca di Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale, aveva detto che era “irrazionale” pensare che l’Occidente avesse in agenda le terze dosi mentre così tante persone dei paesi poveri rimangono senza protezione”.

Insomma, di chi è la colpa? Dell’Occidente ricco? Dell’Oms? Dell’Africa imbelle? Di Andreotti? Del Nuovo Ordine Sovrano Mondiale? Dei banchieri e delle lobby farmaceutiche? A voler resettare la causa guardando solo agli effetti viene da pensare che se neanche una pandemia ci fa ragionare secondo etica di squadra allora la pandemia è l’ultimo dei problemi che qui sulla Terra abbiamo.

Geografia della cazzimma.