La cicogna non vola più qui: crollano le nascite

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I numeri drammatici sulle nascite in provincia di Frosinone. Siamo sempre meno. Tra gli ultimi in Italia per indice di Natalità. Latina sta molto meglio. La situazione nel Lazio. All'origine del problema. E le possibili soluzioni

di Giancarlo PIZZUTELLI

Direttore del Dipartimento di Prevenzione Azienda USL di Frosinone

La cicogna non passa più qui. In provincia di Frosinone siamo sempre meno: nascono pochi bambini, sono sempre meno dei morti registrati nel corso dell’anno, ci salva la migrazione dalle altre province. I numeri aggiornati di AdminStat (realtà di riferimento nel geomarketing) non lasciano spazio a dubbi.

Culle vuote

Rivelano che la popolazione al 1 gennaio 2019 era di 489.083 persone. Più morti che nati: in tutto il 2018 la cicogna è passata 3.364 volte mentre ci hanno lasciato nello stesso periodo in 5.321, con un saldo naturale di 1.957 persone in meno. Un calo mitigato dall’arrivo di migranti da altre province o Paesi: si sono iscritti in 11.019 all’Anagrafe e cancellati in 10.661, con un saldo migratorio positivo di 408 unità.

Il trend della popolazione è in calo ormai da anni: dal 2013 non c’è mai stato il segno più davanti ai numeri. Il nostro tasso di natalità è del 6,9 per mille: in pratica siamo al 62mo posto su 107 province italiane.

Mal comune

Non è un fenomeno legato alla sola provincia di Frosinone. Ma non è una co soluzione. Basta gettare uno sguardo nella vicina provincia di Latina: lì il tasso di natalità è del 7,9 per mille che la colloca all’11° posto su 107 province; la popolazione della provincia di Latina è pari a 575.577 persone.

Basterebbe solo questo dato per iniziare a comprendere come mai, di fronte ad un’ipotesi di fusione dei due territori è sempre Latina a trovarsi avanti.

Poco peggio di noi sta la provincia di Viterbo dove il tasso di natalità è del 6,6‰ (75° posto su 107 province), la cigola si vede meno ancora in provincia di Rieti dove il tasso di natalità è del 5,9‰ (96° posto).

Non ci consoliamo nemmeno prendendo in considerazione i più recenti dati forniti dall’Istat – l’istituto centrale di Statistica. I numeri sull’andamento demografico italiano sono quantomeno allarmanti.

Nel 2019 si sono avute solo 435mila nascite a fronte di ben 647 mila morti (saldo negativo di 212.000 unità). Il numero medio di figli per donna è pari solo a 1,29, dato bassissimo se si pensa che il tasso di rimpiazzo è calcolato pari a 2,15.

Insomma, siamo in caduta libera.

Prima non era così

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Inoltre il confronto con il passato, ad esempio con gli anni 60 del 900, è impietoso. All’epoca avevamo un netto saldo attivo delle nascite sulle morti (pari ad oltre 400.000 unità annue) e il numero medio di figli per donna era all’incirca doppio di quello attuale (oltre 2,50).

Analizzare le cause di tale andamento è tuttora una grande sfida per molti sociologi, economisti e demografi.

È apparsa peraltro assai carente l’analisi su un aspetto della propensione alla natalità che invece andrebbe parecchio approfondita e cioè la progressiva marginalizzazione del ruolo paterno. Nel nostro Paese, ad esempio, di fronte al progressivo aumento del fenomeno delle separazioni e dei divorzi si è provveduto a tutelare in qualche modo la figura paterna solo nel 2006 (Legge n. 54 sull’affidamento condiviso dei figli). Legge peraltro piuttosto limitata, da “minimo sindacale”, che è arrivata terribilmente in ritardo, con una gestazione di ben 4 legislature.

Nel frattempo dagli anni 60 al 2006 il numero di matrimoni finiti con la separazione era passato da 1 su 60 a 1 su 3.

Ed oggi la tendenza è ancora più accentuata.

Niente congedo

Altro aspetto della marginalizzazione della figura paterna è rappresentata dalla assoluta trascuratezza con cui è tuttora trattato il tema del congedo di paternità. Quest’ultimo, da noi, è un diritto solamente  “sperimentale”

Si, proprio così, il congedo di paternità in Italia è uno di quei diritti che definire negletti è poco.

Infatti la La legge 28.12.2012, n. 92, con l’art. 4, comma 2, lett. a), ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento, in via sperimentale e a valere per gli anni 2013, 2014 e 2015, l’obbligo per il genitore di assentarsi dal lavoro, entro 5 mesi dalla nascita del figlio, per 1 giorno.

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Aggiuntivamente, lo stesso genitore poteva fruire di altri 2 giorni di astensione facoltativa dal lavoro; giorni, in questo caso, da detrarre dal periodo di congedo obbligatorio della madre e, quindi, in accordo con essa.

La disposizione legislativa, proprio perché ha carattere sperimentale e, quindi, una precisa limitazione temporale, va necessariamente sottoposta a proroghe con le leggi annuali di bilancio, altrimenti decadrebbe.

Allo stato, per il 2020, sono previsti 7 giorni di congedo obbligatorio di paternità. Una misura decisamente insufficiente e ben al di sotto di qualsiasi standard internazionale. Tale estensione temporale ci colloca infatti al 21° posto in Europa e non soddisfa ancora il pur modesto livello minimo previsto dalla UE di 10 giorni (Direttiva 2019/1158) 

La Francia, ad esempio, ha 14 giorni + 30 in caso di ricovero ospedaliero del bambino. La Spagna 56 giorni.

Solo nel privato

Ma c’è di più: il congedo di paternità, sia obbligatorio che facoltativo, riguarda e concerne ab origine solo ed unicamente i dipendenti del settore privato.

Infatti, il Dipartimento della Funzione pubblica, con parere n. 8629 del 20.02.2013 indirizzato al Comune di Reggio Emilia, tanto ha  precisato in merito: “… la normativa in questione – congedo obbligatorio e congedo facoltativo del padre lavoratore – non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti della pubbliche amministrazioni (…), atteso che , come disposto dall’art. 1, commi 7 e 8, della (…) l. n. 92 del 2012, tale applicazione è subordinata all’approvazione di una apposita normativa su iniziativa del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione”.

La predetta preclusione è vigente a tutt’oggi. Il Ministro competente non ha ancora emanato il Decreto inteso a definire ambiti, modalità e tempi per estendere il congedo in discorso ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Nel 2020 tale situazione è assolutamente inconcepibile ed inaccettabile.

La soluzione

Giancarlo Pizzutelli

Il fatto è che rischiamo di scomparire, come italiani. Un problema che all’estero è stato affrontato, stimolando la natalità. Partendo proprio dall’aumento dei giorni di congedo. Chio fa dei figli ha molto tempo per stare a casa ed iniziare a crescerli.

E’ assolutamente necessario, nell’immediato, introdurre l’istituto del congedo di paternità di almeno 30 giorni dopo la nascita (o adozione) del figlio.

Il principio di funzionamento dovrà essere sovrapponibile al congedo di maternità: obbligo per il datore di lavoro e diritto inalienabile del padre. Inoltre divieto di licenziamento per un periodo di durata identica a quanto riconosciuto alle madri.

In tal modo riconoscendo la dignità della figura paterna e del suo ruolo (con ovvie ricadute favorevoli  anche sui compiti di cura del figlio e quindi con alleggerimento del carico di lavoro della madre) non solo si ridurrebbe un’imbarazzante disparità di trattamento ma si contribuirebbe ad ottenere un maggior coinvolgimento della figura paterna nelle dinamiche genitoriali e, auspicabilmente, una ripresa della natalità, attualmente davvero troppo bassa.

Certo che lo snobismo o, addirittura, l’ostilità con cui è stata affrontata in Italia la questione dei diritti dei padri non può non aver avuto effetto su una dinamica demografica così sfavorevole.