In 440 licenziati con una mail. Cambiano i modelli di produzione. Arrivano le prime vittime. La lezione che arriva dalla Ciociaria. Per una volta davanti agli altri. Le paure spiegate dal sondaggio Ipsos presentato all’EcoForum 2021. Dice che 6 italiani su 10 non conoscono i principi della circolarità. Al punto che che la metà non sa che l’Italia è leader in Europa per riciclo
Il segnale d’allarme arriva da Firenze e deve far riflettere anche Frosinone. Nelle ore scorse una mail è stata inviata a tutti i dipendenti della Gkn di Campi Bisenzio: sono stati licenziati. Tutti. Uno schiaffo alla Toscana post pandemia, una “vergogna nazionale” per il sindaco Dario Nardella.
Alla base della chiusura di Gkn c’è un principio che da queste pagine abbiamo sollevato più volte: il mondo cambia, le industrie cambiano, i modelli di produzione cambiano. Un solo dato come esempio: la pandemia da Covid-19 ha insegnato che deve cambiare la Global Supply Chain e che il modello di produzione globalizzato non va più bene. Che accidenti significa?
Significa che fino a ieri l’industria automobilistica tedesca prendeva le parti in plastica dall’Italia e gli ammortizzatori dalla Spagna, le viti dal Nordafrica e le centraline dall’Oriente. Ma basta che uno solo di questi Paesi finisca in lockdown e l’intera catena automobilista nazionale si ferma. (Leggi qui «Basta globalizzazione, ora serve una nuova economia»).
Questo determinerà la chiusura di fabbriche in alcune zone e lo spostamento della produzione in altre. Per accorciare la catena dei rifornimenti.
Frosinone davanti alle altre
Oggi non si può più produrre come ieri. Perché non ci sono abbastanza materie prime. Non abbiamo più montagne da sventrare per fare pietre, non abbiamo più acqua per dissetare tutti, non abbiamo abbastanza alberi per far respirare l’ambiente ma al tempo stesso fare mobili, travi e case.
È per questo che tutta la nuova industria sta nascendo intorno all’Economia Circolare: prende i materiali che abbiamo usato e ne ricava nuova materia prima. Questo significa che nel giro di pochi anni non avremo quasi più rifiuti. Perché non esisteranno più: diventeranno tutti nuova materia prima. Per forza di cose.
E l’industria della provincia di Frosinone in questo senso è già proiettata in avanti: la Saxa Gres di Anagni è la prima Circular Factory in Italia, la Grestone di Roccasecca è la seconda. In entrambi i casi sono stati salvati tutti i posti di lavoro. A centinaia. Non come a Campi Bisenzio e come succederà ora in molte altre realtà d’Italia. O si converte o si chiude.
Chi aveva paura dell’economia circolare, chi voleva difendere il vecchio modello lineare fatto di consumi e discarica, diceva che nella ex Marazzi Sud di Anagni e nella ex Ideal Standard di Roccasecca avrebbero lavorato sostanze pericolose, micidiali. Ceneri da termovalorizzatore. Un dato su tutti: in nessuna delle due fabbriche risulta che in questi anni di conversione al circular ci sia gente rientrata a casa con un alone blu intorno alla sagoma, gli sia spuntata la probiscide o cresciuta la coda. Non c’è stata alcuna catastrofe sanitaria come a Taranto con l’Ilva. Per un motivo molto semplice: le ceneri di termovalorizzatore vengono usate da anni, sono una componente dei cementi con cui si fabbricano le case in cui abitiamo. La novità di Anagni e Roccasecca è stata quella di usarle per farne pietre.
L’ignoranza sul Green
Ma allora perché ci sono state persone che si sono dovute inventare quelle falsità? Una risposta è arrivata l’altro giorno. Dal uno dei luoghi più accreditati in Italia nei quali si parlai di Ambiente.
La risposta arriva dal sondaggio Ipsos, promosso da Legambiente e presentato durante l’EcoForum 2021, sei italiani su dieci non conoscono i principi dell’economia circolare. Perché la fonte principale di informazione resta la televisione. Anche se l’approfondimento lo fanno stampa e blog specialistici. Sempre per il solito problema del Paese: che resta a guardare (la tv) e legge poco.
E se lo Stivale diventerà per davvero equo e sostenibile, sempre secondo la maggior parte dei connazionali, sarà grazie al Vecchio Continente: nel senso che è estremamente importante l’indirizzo dato dall’Europa all’Italia verso la rivoluzione verde. Ma è fondamentale scrollarsi di dosso le false convinzioni che generano i conflitti ambientali. Anche e soprattutto in provincia di Frosinone, dove tra l’altro c’è già una sensibilità maggiore rispetto ad altre parti d’Itallia: qui si sta ragionando su un protocollo per smascherare industriali inquinatori e falsi ambientalisti. (Leggi qui La sfida agli industriali. Ma pure ai falsi ambientalisti)
Quanto incida negativamente la mancanza di dati e informazioni, per colpa propria o altrui, si evince dall’indagine “Futuro ed economia circolare” condotta dalla nota società di analisi e ricerche di mercato. Che tra il 23 e il 28 giugno ha effettuato 1.004 interviste online a un campione di popolazione avente dai 16 ai 70 anni. Quasi equamente diviso tra uomini (49%) e donne (51%), con un’età media di 44 anni e così distribuito geograficamente: Nord Ovest 26%, Nord Est 19%, Centro 20% e Sud 35%. Otto su dieci non sono laureati e poco più della metà lavorano.
Innanzitutto le basi: quelle sconosciute
Prima di tutto è stata fornita una definizione di economia circolare: «Un modello industriale basato sul riutilizzo delle risorse: secondo tale modello, tutte le attività sono organizzate affinché ciò che è stato utilizzato possano diventare risorse da reintrodurre nel ciclo di produzione di nuovi beni, tramite il ripetersi del riutilizzo/riciclo».
E poi ancora: «L’economia circolare riduce al minimo gli scarti puntando su loro uso per la creazione di nuove materie prime, prevedendo e studiando sin dall’inizio del processo la loro valorizzazione».
Va detto che, nel giro di tre anni, i consapevoli sono aumentati: nel 2018 rappresentavano il 17% e ora il 25%. Ma resta il fatto che sei italiani su dieci restano lontani dal concetto: tra questi più quelli che ne hanno sentito parlare, ma non sanno bene cosa sia (36%). Ma c’è anche chi non ha benché minima idea di cosa si tratti (19%) o la confonde con altre discipline (4%). E, tra il 41% che la conosce, c’è un 16% che non sapeva che si chiamasse così.
Recovery plan: non”solo” ecotransizione
I settori coinvolti nell’economia circolare? Si pensa che siano maggiormente l’industria, il commercio e l’agricoltura: non tanto il terzo settore, i servizi e il settore pubblico.
Anche se il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), che verrà finanziato con 222 miliardi derivanti dal Next Generation Eu – il Recovery fund a sostegno degli Stati membri colpiti dal Covid – non è improntato esclusivamente all’innovazione del sistema produttivo e alla transizione ecologica.
Ma anche al potenziamento delle infrastrutture, dell’universo scolastico e universitario, delle politiche sociali e del servizio sanitario nazionale. E per non perdere i fondi, dopo quella della Pubblica Amministrazione, sarà fondamentale fare la riforma della Giustizia. (Leggi qui Top e Flop, i protagonisti del giorno 9 luglio 2021 – Mario Draghi).
Sì al Circular. Ma servono gli impianti
Quasi qualificata la maggioranza, arrivata al 73%, che pensa che il Pnrr sia importante. «Il Recovery Fund e il suo piano attuativo si confermano una buona occasione per un rilancio ‘green’ dell’economia – evidenzia Ipsos -. Rilancio che deve essere considerato per gli italiani ai primi posti tra le priorità dell’immediato futuro».
Cosa ha risposto l’altro 27%? Che è meno rilevante di altri aspetti (8%), che non ha un gran senso (7%) o che è addirittura dannoso (5%). Questi ultimi, infatti, ritengono che «bisogna far ripartire l’economia e non inseguire temi di moda».
Quali sono le azioni prioritarie secondo gli italiani? La rigenerazione degli impianti industriali esistenti, la riduzione delle tasse alle aziende impegnate nella circolarità, le premialità ai cittadini per lo sviluppo del loro senso civico e il sostegno alla ricerca scientifica. Perché «i più avveduti – si accentua – comprendono l’importanza di una progettazione ex-ante della circolarità».
L’economia circolare, però, ha bisogno di impianti di riciclo e trasformazione delle materie prime seconde. E, rispetto all’uso dei fondi per la loro realizzazione, anche la Corte dei Conti non ha bacchettato la Ciociaria. (Leggi qui Rifiuti, per una volta la Corte dei Conti non ci bacchetta).
L’effetto Nimby: non nel mio cortile
C’è, però, una forte contraddizione: il 90% pensa che in Italia il numero di impianti sia inadeguato ma più della metà non li vuole vicino casa. Devono stare ad almeno 10 chilometri di distanza. È l’effetto Nimby: Not In My Back Yard, ossia Non nel mio cortile.
La principale motivazione? Il rischio di inquinamento dell’aria. Ma, come per i biodigestori tanto contestati in Ciociaria, la domanda resta sempre la stessa: «E i rifiuti dove li mettono?». (Leggi qui “Ora vi racconto come il bio metano ha cambiato il mio Comune” e anche qui Migliorelli: “Non si ferma il futuro green”).
Come trovare una sintesi rispetto a un tema così spinoso? Secondo il 31% degli intervistati deve avere più voce in capitolo il Governo nazionale. Il 24%, invece, vuole che siano le Regioni a definire dove costruire gli impianti per il riciclo. Come sempre, in medio stat virtus: «Una buona interazione tra il Governo e le Regioni, come espressione delle esigenze territoriali, dovrebbe portare nelle aspettative a scelte condivise».
Scelte condivise che servirebbero anche in provincia di Frosinone: dove vengono contrastati gli impianti e non c’è nemmeno più una discarica per l’indifferenziato, da cui si può ricavare altra materia riciclabile. E si trasferisce tutto altrove, pagando chi non li tratta come un problema bensì una risorsa. (Leggi qui Nuova discarica: Pompeo dice no alla Regione).
Riciclo: essere primi e non saperlo
In fondo il vero problema vero resta la mancanza di informazione o, peggio, la disinformazione. Perché uno su due è ancora convinto che l’Italia sia scarsamente attenta alla circolarità. Sia chiaro: sono dello stesso avviso anche quelli che risultano più informati.
E, invece, non è così: siamo il primo Paese in Europa per riciclo. Siamo al 76%, ovvero il doppio della media europea. Impensabile per la metà del campione. Che in gran parte ritiene che manchino controlli (33%), norme efficaci (22%), attenzione da parte dei cittadini (20%) e adeguata raccolta differenziata (19%).
«Le imprese italiane pensano solo ai profitti», taglia corto poi un altro 19%. «Da troppo poco tempo è presente una sensibilità», fa presente il 17%. E, a parte il 2% che vede troppe industrie in giro, il 14% ha una sua spiegazione: «È un Paese difficile». Dove spesso, come insegna la Ciociaria, si pagano gli errori di altri. (Leggi qui L’altra faccia della guerra dei rifiuti: Ciociaria sacrificata e umiliata).
Perché siamo proprio un Paese difficile
Un Paese, però, in cui è stato già raggiunto l’obiettivo di riciclo del 2030 per acciaio, alluminio, legno e vetro: nell’ordine 82, 70, 63 e 77 per cento a fronte dei richiesti 80, 60, 30 e 75 per cento. La carta, col suo 80%, ha già centrato il bersaglio del 2025 (75%) e viaggia tranquillo verso l’85% entro i prossimi nove anni.
Esclusivamente con la maledetta plastica, che l’ultimo Rapporto Ispra piazza al 45%, l’Italia non si è portata avanti col lavoro. Ma ci sono ancora quattro anni per raggiungere il 50%. E, se si toccherà quota 55, anche l’obiettivo 2030 sarà portato a casa. Anche in provincia di Frosinone, soprattutto l’esempio di pochi verrà seguito da tutti gli altri. (Leggi qui Ceccano Plastic Free: grazie a un ragazzo sull’albero).
Il sondaggio Ipsos si conclude con il trattamento dell’olio esausto e il ruolo della ricerca e dell’innovazione. Nel primo caso, «benché circa la metà degli intervistati sia a conoscenza dell’attività di raccolta dell’olio minerale usato – si attesta – la maggioranza degli italiani sono inconsapevoli sulle sorti di questo rifiuto pericoloso».
Il 44%, infatti, sa che viene recuperato: il 98.8% viene rigenerato e appena l’1.2% viene avviato a combustione o termodistruzione. Eppure uno su dieci pensa che venga perlopiù disperso nei mari, fiumi, laghi e terreni.
Ricerca e innovazione: piacciono a mezza Italia
L’Italia, infine, si spacca anche rispetto alla ricerca e all’innovazione. Il 50% è sicuro che «potranno dare un forte contributo positivo alla sostenibilità e all’economia circolare». Dall’altra parte, invece, c’è chi sostiene che «saranno abbastanza indifferenti» (27%) o che «sono sempre state dannose per l’ambiente» (7%). E il 16%, disinformato, non ne ha la più pallida idea.
Per concludere: «I primati italiani nei vari ambiti del riciclo sono ampiamente ignorati, forse messi in secondo piano da poche emergenze geolocalizzate – ricapitola Ipsos -. Esiste comunque una grande fiducia nella capacità della ricerca scientifica di risolvere i problemi».
In occasione dell’ottava edizione dell’EcoForum, uno dei principali temi è stata proprio l’innovazione digitale per l’economia circolare. Ed è stata protagonista Itelyum: leader nella gestione e valorizzazione dei rifiuti industriali e, come a Ceccano, nella rigenerazione degli oli usati. (Leggi qui Itelyum fa scuola all’EcoForum 2021).